Revue Romane, Bind 33 (1998) 2

Il dono del racconto Metafore e strategic discorsive ne Il coraggio del pettirosso di Maurizio Maggiani.

di

Paola Polito

// coraggio del pettirosso,1 di cui si è parlato con entusiasmo nei giornali e nelle riviste letterarie al momento della vittoria del premio Viareggio (e poi del Campiello), è stato finora2 stranamente ignorato - come del resto tutta l'opera dello scrittore spezzino - a livello di critica specialistica.3 Questo romanzo, con la sua particolare voce narrante, colorata di ironia, in cui si riflette la vicenda di crescita personale del soggetto protagonista, si presta invece, a mio avviso, a uno studio letterario, narratologico, che metta contemporaneamente a frutto alcuni suggerimenti della linguistica testuale e dell'analisi del discorso.

Procederò qui pertanto a una lettura al contempo letteraria e linguistica, che, dopo aver individuato la struttura e il genere narrativi, esplori la rete metaforica che regola la narrazione e fecalizzi gli specifici procedimenti discorsivi per il cui tramite va componendosi nel romanzo la figura del personaggio protagonista, al quale è affidata la voce narrante - in una Bildung che lo vede raggiungere una sorta di maturità individuale e sociale attraverso la costruzione di sé come 'narratore epico'.

Rintracciando ed evidenziando le particolari scelte retoriche esplicantisi a livello macrotestuale e quindi partecipanti complessivamente alla strutturazionedel testo in quanto narrazione (è il caso delle metafore e del dialogismo),e segnalando il doppio registro stilistico (del racconto in prima persona e del racconto in terza persona), verrà ricostruita la trama linguistica e stilistica che struttura la rappresentazione - in atto nel romanzo - di un 'percorso di formazione': nel caso, la formazione di un narratore epico della

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modernità. Ritengo infatti che proprio il felice incontro di levità e pesantezza, - costituito dal ricorso a una voce narrante falsamente ingenua (in qualche modo erede di Gozzano, Palazzeschi, Svevo) all'interno di un impianto che, secondo la tradizione epica, affida alla narrazione un compito fondante e salvifico, di riscatto, costituisca l'alchimia specifica di un'opera che sembra aspirare a situarsi nella scìa dei classici (cui fa il verso, ma in cui crede fondamentalmente, in una sorta di utopistica restaurazione 'da sinistra' del gusto di raccontare) piuttosto che nel novero delle estenuazioni minimaliste di tipo postmodernista. Pertanto, questo approccio integrato (narratologico e linguistico) non vuole in nessun caso rinunciare a produrre un'interpretazione che esprima anche un giudizio di valore.

Le storie incastonate e alternate

L'ambiziosa complessità di questo romanzo, risultato del montaggio di due storie che si intrecciano procedendo a blocchi (con infrazioni all'ordine naturale tramite analessi e prolessi), raccontato in parte in prima e in parte in terza persona, spinge a interrogarsi sia sulla sua appartenenza di genere che sulla sua modalità narrativa.

Proprio in ragione degli intenti di questo studio, che nell'analisi de II coraggio del pettirosso andrà a privilegiare un genere sugli altri - appunto, la 'storia di formazione' - e cercherà di individure quali procedimenti metaforici e discorsivi realizzino tale genere romanzesco, sembra opportuno iniziare con una presentazione della struttura, illustrativa fra l'altro dell'intraprendenza architettonica di Maggiani (che alcuni commentatori gli hanno rimproverato).

Il testo consta di tre parti e di un'appendice.

1. Ne II libro del deserto (pp. 13-168) il giovane protagonista Saverio Pascale, ricoverato in una stanza d'ospedale ad Alessandria d'Egitto in seguito a un'embolìa da immersione, si da alla scrittura nella speranza che questa pratica (come già per il suo illustre predecessore Zeno, cui è evidente il richiamo parodico) gli assicuri la guarigione dall'abulìa in cui è sprofondato. Rivolgendosi ora al «voi» dei suoi «improbabili» futuri lettori, ora al medico curante, riferisce delle vicende precedenti al ricovero, tra cui anche un viaggio nel deserto. Al suo passato recente appartiene fra l'altro la scrittura - sfortunata perché interrotta a due capitoli, anàdromi - di una storia tardocinquecentesca, in cui si coniugano fantasticamente la vicenda della condanna e messa al rogo di un eretico di nome Pascal (ispiratagli da un documento che il poeta Ungaretti gli ha affidato misteriosamente), e la storia della comunità degli Apui di Carlomagno, nella regione di Garfagnana, «popolo di bestie, senza una città e senza una scrittura» mai prima sottomessosiad

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messosiadalcuno, ma adesso - in epoca di Controriforma — assoggettatosi
volontariamente al signore di Bramapane.

Questa prima parte include dunque, oltre alla storia di 'cornice', anche i capitoli A e B con le storie di Pascal e del popolo di Carlomagno (pp. 138-145 146-162). Nel cap. B, la Canzone della secchia riempita con il succo della morte del signor Cristo il Figlio di Dio e della resurrezione miracolosa del popolo di Carlomagno dalla carne tribolata dell'antico popolo Apuo è raccontata, come scrive Saverio pieno d'orgoglio, da «un personaggio iperbolico, il coro di Carlomagno, che raccontava quello che solo lui poteva sapere e aveva il diritto di dire; un'estensione della storia che la liberava dalle angustie dei singoli personaggi» (p. 162).

2. Ne // libro di Pascal (pp. 171-232) è raccontato in terza persona, sotto forma di trascrizione mattutina di sogni notturni, il «ripieno» della storia di invenzione tra i due capitoli A e B, dall'arrivo a Carlomagno dell ex-soldato Pascal, ora balivo al servizio del signore di Bramapane, fino al suo matrimonio con l'apua Sua, figlia di Ruben il pescatore di rane e di Cerina la levatrice. Questa sezione comprende le pagine intitolate Prime notti con Pascal (pp. 173-184, 189-205 e 207-231), apparentemente inclusive della Canzone di Fuma formaggiaro, del suo grande onore e della sua grande debolezza (pp. 184-188), della Canzone di Ruben alla palude (pp. 205-207) e della Canzone di Cerina per la figlia che si allontana (pp. 231-232), tre racconti intradiegetici narrati da personaggi dell'azione. Delle tre Canzoni, solo la prima ha vero carattere di racconto, mentre le due restanti sviluppano entrambe un'invocazione alla natura secondo stilemi magico-pagani: carica di premonizioni lugubri su ciò che la Storia riserva a Carlomagno quella di Ruben (che anticipa l'abbattersi sul proprio popolo della repressione controriformistica), piena di ammaestramenti 'matrimoniali' espressi con linguaggio riccamente figurato e improntati a fierezza femminile quella di Cerina. Tematicamente le pp. 189-205 e 207-231, in cui prosegue la storia di Pascal, sembrano però costituire due sequenze narrative senza titolo, costitutive - insieme al resto - del Libro di Pascal.

3. Ne II libro di Sua (pp. 235-314) si intrecciano il racconto in prima persona di Saverio e il racconto storico-fantastico del paese di Carlomagno, quest'ultimo completato oralmente da Saverio, in un regime dialogico fatto di domande e risposte, interruzioni, commenti, interventi da parte di un uditorio raccoltosi espressamente per ascoltarlo. Questa parte è così suddivisa:

- racconto autodiegetico di Saverio (pp. 235-254): dono del manoscritto
incompiuto all'amico tipografo Ruben, detentorc della 'memoria' di
Carlomagno all'interno del gruppo di Apui emigrati ad Alessandria;

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- Gli ultimi sogni di Pascal (pp. 254-256);

- racconto autodiegetico di Saverio (pp. 257-314), in cui viene incastonata la storia di Pascal, che Saverio riprende oralmente (pp. 277-311) davanti alla comunità anarchica e di cui la 'Storia del Popolo Apuo' scritta da Sua costituisce l'atto finale. Quest'ultimo testo è stampato a caratteri gotici e con la parola Fine segna anche la fine della storia immaginata da Saverio.

Neir Ex voto (pp. 315-316) apposto in conclusione, l'autore, oltre ad attestare l'autenticità del documento menzionato nel romanzo, riferito a tale Gian Luigi Pascale, predicatore di fede valdese morto sul rogo - ringrazia la comunità valdese delle valli del Pellice ed altri co-autori, tutti «ricordati per nome e cognome», oltre a due donne, Grazia (la scomparsa Grazia Cherchi) e tale Soni, un amore ormai finito, pare di capire, e al quale comunque l'autore attribuisce la responsabilità dell'eccezionale ottimismo con cui si conclude il romanzo.

Il genere

Metaromanzo, romanzo autobiografico e di formazione, romanzo storico?
Come si è visto, a livello di narrazione vi si presenta basicamente un

intricato accostamento di due modelli, quello del racconto autodiegetico e del romanzo storico in terza persona, il cui contatto e reciproca giustificazione sono assicurati dall'essere il narratore 'protagonista romanziere', intento a raccontare non solo e soltanto la propria storia ma anche e soprattutto una storia d'invenzione diversa e lontana dalla propria, tanto temporalmente quanto spazialmente. Che la storia d'invenzione, poi, oltre a fondare l'identità del protagonista come narratore, fondi anche, contemporaneamente, l'identità del popolo cui il narratore appartiene, conferisce al racconto elaborato dal protagonista una dimensione epica.

Dato il suo carattere tipologico misto, complicato da incastri e riprese, questo testo narrativo pone pertanto all'interprete alcuni interrogativi a livello di recezione. Con il racconto autodiegetico del primo libro, ripreso poi nel terzo, ci troviamo infatti davanti a una sorta di 'cornice' spropositata, ricca di eventi, commenti e valutazoni del soggetto che parla di sé, ma anche di discorsi, racconti e dialoghi in discorso diretto o riportati. Il montaggio dei vari blocchi narrativi e il peso da questi assunto nell'economia dell'intero testo fanno sì che la cornice acquisti fin dal primo libro l'autonomia di un racconto di primo grado, fortemente caratterizzato da dialogismo - sia, come vedremo, nei fenomeni di voce e nella strategia argomentativa del narratore autodiegetico, sia per la frequenza e rilevanza dei dialoghi (assolventi la duplice funzione di informare e formare, sottolineando l'aspetto euristico della vicenda del protagonista, in costante posizione di discente), sia per la funzione costruttiva che il dialogo con i destinatari assolve a livello di

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produzione narrativa (cfir. il par. «Il significato condiviso: un'allegoria del circolo ermeneutico»). Pertanto la storia di Pascal e del popolo di Carlomagno (cui fra l'altro è assegnato minor numero di pagine rispetto alla cornice) acquista statuto di storia di secondo grado raccontata da un narratore eterodiegetico, complicata peraltro da narrazioni intradiegetiche in cui un personaggio si fa narratore e racconta la propria storia (come è il caso della canzone del formaggiaro Furnà) o da prese di turno di parola, a carattere monologico, da parte di alcuni personaggi (le canzoni dei genitori di Sua).

Come ne La Coscienza di Zeno, il soggetto che parla di sé va qui via via definendosi in quanto personaggio (soggetto letteraturizzato, fattizio) per i fatti che ci racconta, ma anche e soprattutto per il modo in cui ce li racconta, determinato da elementi valutativi espliciti (commenti, interpretazioni, ipotesi, domande) ma anche impliciti.4

La rivisitazione del romanzo di formazione è qui operata attraverso l'autorappresentazionedi sé che il soggetto fa come di un personaggio debole («È che, semplicemente mi mancano le forze», p. 16), solitario in preda a un «senso di incompiutezza e di mestizia» (p. 136) che - dopo vari tentativi più o meno falliti di ricerca di una direzione, raccontati in una sequenzialità di tipo causale, come segmenti d'una catena finalistica di eventi chiave (cfr. qui, il par. «La narrazione come costruzione del senso») - troverà nella nostalgia per personaggi e luoghi mai conosciuti il sentimento capace di avviarlo sulla strada di una sublimazione creativa, la scrittura, produttrice di qualcosa di reale: una storia, appunto. Questa storia è comunicabile, anzi donabile agli altri, ed instaura un patto di fiducia e credibilità tra l'autore e la sua gente. In tale patto il protagonista finalmente si rafforza come soggetto, consapevole dell'avvenuto mutamento di sé attraverso il suo proprio discorso, attraverso la sua propria parola, adesso condivisa con gli altri. L'unico modo per fondare la propria identità culturale contro quella dominante stava per Saverio nel colmare con la fantasia e con la voce del cuore i silenzi della Storia, un po' ricostruendo e un po' inventando una microstoria di alto significato umano e politico. Di fronte alle vittime della Storia, l'invenzione - «sogno di un privilegiato» - viene a costituire un riscatto. Ma attraverso il racconto il soggetto riscatta anche se stesso, il proprio 'vuoto', la propria percezione di sé come uomo mediocre.5 Si tratta, per il protagonista, d'una consapevolezza dolorosa che dura fino alla fine, ma che - nella maturità raggiunta - è vista adesso come un limite accettabile, con cui si ribadisce una modalità dell'essere e una poetica scontrosamente fondate sull'attenuazione del sublime tramite l'ironia e l'autoironia.6 Il pettirosso della parabola paterna, metafora centrale del romanzo, uccelletto sbeffeggiato e ferito a

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un'ala, riesce comunque a volare, anzi a portarsi in territorio a lui proibito e
da lì colpire i detentori e gli esecutori del potere (il falchetto, le gazze).

Metafore

II romanzo si muove a spola tra la metafora libertaria, ed estroversa, del volo goffo del pettirosso, presa in prestito - come apprendiamo in exergo - da una canzone di De André,7 e quella, sublime, introversa, della ricerca del porto sepolto, di ungarettiana memoria, appartenente alla cultura alta e preziosa, simbolista. Mentre al pettirosso rimandano il protagonista e il popolo di Carlomagno, oltre che, più in generale, la concezione del raccontare cara a Maggiani, la ricerca di una verità nascosta o dimenticata cui si allude con la metafora della discesa non manca di strutturare nel testo una serie di rinvii. In una sua personale ricerca dell'anarchia (di cui postula confusamente l'identità con le nozioni di Dio, felicità, fratellanza, libertà), Saverio giunge infatti ad esplorare regioni e dimensioni a regime speciale, fuori delle normali coordinate di tempo e di spazio. In contrapposizione alla sequenza mondana, all'ordine degli eventi, al tempo, alla triste coscienza di sé come vuoto in cui faticosamente edificare un senso, il protagonista che ci parla di sé intravede in alcuni tentativi - di cui ci riferisce - la possibilità d'una fuga, d'un rifugio. Una pausa in cui avvicinarsi, benché precariamente, a una sorta di rovescio del mondo. È il caso delle immersioni nel fondo marino.

L'immersione in apnea (pp. 165-168) è un'esperienza intensa, di grande qualità, caratterizzata soprattutto da naturalezza e onestà («ad armi pari, senza trucchi»), la cui durata dipende solo dai limiti di fiato del soggetto. Ad essa Saverio associa sensazioni di felicità, leggerezza e vastità interiore, oltre che di grazia e di equilibrio perfetto con l'ambiente, tanto più apprezzabili in quanto limitate nel tempo:

un moto dolce e universale ti impresta le ali di una manta e ti porta piano
piano ancora più giù, fino all'altra terra, al continente di sotto, (p. 166)

Questa esperienza, breve, si svolge con calma, senza fretta, «piano piano»
appunto, senza ansia:

Quello che senti è di essere felice e infinito, totalmente felice, totalmente libero.
(Ib.)

Il soggetto, nel suo discorso, qualifica l'esperienza come una perdita di
coscienza («dolce incoscienza») e perdita della nozione del tempo («la tua
coscienza è altrove, non è nel tempo»):

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Ogni volta mi sono stupito di questo, di come là sotto non c'è il tempo nostro,
ma qualcosa che non ho mai capito: il tempo di Dio, la mia parte del tempo di
Dio, e qualcosa del suo essere ovunque e ogni cosa. (Ib.)

Indifferenziarsi, restare inerte, diventare mite («i pesci non ti scansano né fuggono via impauriti: sanno che non sei più un cacciatore carnivoro»), immobile. E poi riemergere, per istinto, senza fretta. L'esperienza della propria parte di Dio, della propria parte di anarchia, come la chiama Saverio integrando nel suo commento l'insegnamento del monaco Azena, è una purificazione, la proiezione utópica in un mondo nel quale «il lupo dimorerà con l'agnello». Tale esperienza dialoga con la metafora letteraria, che le fa da modello, del poeta veggente (nel Porto sepolto di Ungaretti):

Vi arriva il poeta/e poi ritorna alla luce.

Dalle valenze molto simili, e comunque decisivo nel processo di formazione di Saverio, è il viaggio nel deserto, un'altra esperienza fuori del tempo della vita, «un lusso...una vacanza da tutto quanto», come dire: una sosta. Nel parlarcene, il protagonista precisa che presso i giovani copti esso funziona da «norma igienica», da «vaccinazione». Le caratteristiche del deserto, nel discorso del soggetto, sono la purezza, il silenzio tonificante e l'aria asciutta che «come una medicina raschia via tutte le impurità». Anche questo è un luogo in cui liberarsi dell'ansia e trovare un equilibrio tra curiosità e tranquillità, la giusta disponibilità al mondo esterno. Nel grande spazio, ogni cosa, odore, sapore è degno di nota:

niente è ammonticchiato alla rinfusa, niente si sovrappone e confligge come
capita in una città, (p. 58)

dove traspare per converso l'ansia da caos che affligge il protagonista. Tutto
vi è «libero di muoversi all'infinito», anche il viaggiatore:

potevo andare all'infinito, con tutti i miei sensi tranquillamente in attesa di
quello che il giorno avrebbe portato. (Ib.)

Nel deserto, dove vige una distribuzione staccata delle esperienze (senza sovrapposizioni e confusione), dove «il tempo è una cosa molto opinabile e una marcia di dieci giorni può sembrare una breve e piacevole passeggiata», c'è posto per la divagazione, per un pensiero inconsapevole:

Pensavo molte cose, credo in continuazione, ma in modo talmente soffice e
leggero che neppure me ne accorgevo. (Ib.)

Ma in entrambi i mondi, il fondo marino e il deserto, valgono precise regole
del gioco che non vanno cambiate, pena la follia o addirittura il pericolo di

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morte. In entrambi è necessario non introdurre la nozione del tempo
(occidentale), la fretta, e mantenere un approccio naturale, non sofisticato.
Impazienza e utilitarismo impediscono di abitare nella sosta .8.8

Altra sosta, più universalmente accessibile delle precedenti esperienze, è
poi l'amore, come intrepidamente il protagonista-scrittore commenta,
andando a rafforzare l'ottimismo di fondo di tutto il romanzo.9

E per Saverio una sosta dalla vita era stata per lungo tempo, dal momento del ricovero, anche l'attività dello scrivere: essa scorreva senza troppe difficoltà, quasi come per coazione, in quanto i sogni gli venivano «giù a fiotti una notte via l'altra». Originariamente opposta alla vita, la scrittura non casualmente s'interrompe quando per il malato, distolto dal suo isolamento ad opera dell'amata Fatiha, giunge «il momento di decidere che non stava male» (p. 259). Nella vita ripresa non c'è felicità, ma Saverio ha imparato la pazienza: ora sa attendere, senza fretta, senza ansia. Vivere è per lui, come già per Zeno, la prassi per guarire:

A modo mio guarisco vivendo, (p. 269)

Accettare il tempo, dare un corpo, uno sbocco alla nostalgia: una via d'uscita sarà nel dono alla sua gente («la mia sola gente comunque sia») di quanto fin qui affabulato. Il dono del racconto scritto non è privo di ritorno: Saverio aspetta infatti, più o meno inconsapevolmente, che gli vengano poste delle domande, cui rispondere raccontando. Un modo per dare risposte alla proprie domande sulla vita: raccontare non più come fuga dal tempo ma come modo per starvi. Anche Sua, la giovane moglie di Pascal nella storia inventata da Saverio, sogna di scrivere il libro del proprio popolo e in questa sua determinazione «non è ingenua». Saverio, animato da un'uguale spinta al racconto, vuole sentirselo dire, e dall'uditorio riunito al bar, in una pausa dettata da un' impasse dell'intreccio, sarà l'amico-confessore Ruben a rassicurarlo:

Non c'è ingenuità in chi pensa che un popolo possa esistere solo se c'è
qualcosa, come un libro appunto, che lo racconti agli altri, (p. 292)

II libro. L'importanza del libro, della parola scritta come lascito da interpretare, su cui crescere, si tematizza nella fabula con un gioco di scatole cinesi. L'influenza della parola scritta è fondamentale per l'evoluzione di Saverio. Il suo rapporto con i versi di Ungaretti («vecchio scroccone della mia vita di dentro» p. 97) è fortemente emotivo, primario, ingenuo. Ciò che egli legge si fa subito voce interiore ed entra in sintonia con i suoi pensieri e sentimenti, dando loro espressione, stabilendo una corrispondenza intima, consolatoria «come una preghiera» ma anche imbarazzante e suscitatrice di

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confusione. Di essa il lettore Saverio subisce il fascino accattivante e
persuasivo:

Chi gliel'aveva chiesta tutta quella intimità? Avevo la sensazione di essere stato preso nella trappola di parole di un mago ipnotizzatore. Parole che oltretutto non avrei dovuto capirci niente, ma che invece mi pareva di capire. Oppure di essere capito, se preferite, (pp. 33-35)

La parola del poeta da voce al sentimento di esilio che caratterizza il personaggio, al suo sgomento di creatura «disarmata e sola», al suo interrogarsi di giovane inesperto. Il carattere di blandizia della parola scritta, la capacità di Saverio di farsela risuonare dentro come una voce doppia (sua e altrui, d'un altro fratello) si presentano anche nella lettura ch'egli fa nel monastero di Abu Makar della Bibbia del Diodati, appartenuta, guarda caso, al poeta del Porto sepolto. Libro, la Bibbia cinquecentesca, non neutro per il trepido lettore, in quanto 'scaldato' dalle precedenti letture di un poeta e scritto da un lucchese riformato proprio ai tempi di Pascal:

La Bibbia tradotta dal professore di lingua ebraica Giovanni Diodati pareva al mio orecchio interiore un lungo racconto ascoltato in una sera di grandi infornate, tra le madie piene di pasta in lievitazione, nel forno di Ras el Tin. Avventatamente, mi lasciavo andare a fantasticare che la lingua del Diodati fosse stata in qualche modo matrice della lingua della mia famiglia, che da Pascal risuonava fino a me. (pp. 129-30)

In particolare leggendo la profezia di Isaia, in cui si parla della «Futura Umanità», dell'avvento della giustizia e della verità in favore dei poveri e dei mansueti, di un regime universale di fratellanza, ecco che Saverio sente vibrare, nella propria, la voce di Pascal.

Il regime dialogico

L'idea della Bildung del protagonista attraverso l'incontro e il dialogo con gli altri si fa largo nel romanzo. Questa funzione di occasione e di stimolo ad approfondire la propria quête viene assolta non solo dai libri, con i quali il protagonista è a colloquio, ma anche dai molti dialoghi - che nel romanzo suppliscono alla mancanza di un dialogo originario. Dalla rimemorazione che Saverio avvia, là dove ricostruisce il suo passato, apprendiamo che la perdita paterna, vissuta come un abbandono,10 non è l'unico capitolo incomprensibile11 di un rapporto mancato. Su gran parte della vicenda terrena del genitore il protagonista adesso si interroga nel tentativo di costruire la propria storia.12 Il discorso di Saverio rileva la poca effusività del padre. Che Giovanni Pascale sia per lui un soggetto imprescindibile ma difficile da trattare lo capiamo anche dal ritardo con cui ce ne dice il nome.13

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Tuttavia è proprio il loro regime di poca loquacità a dare valore ai messaggi paterni, tanto più adesso che essi hanno carattere di testamento: dalla parabola del pettirosso, che è un lascito politico e morale, al libro di Ungaretti (scatenatore in Saverio, o forse incanalatore, di tanta irrequietezza),alla frase tra buffa e sublime pronunciata prima della scomparsa. Al povero figlio non resta che interrogarsi sui nessi.

Misterioso e provocatorio, in modo irridente, è anche il poeta Ungaretti, che - come altre figure maschili, ultima quella del dottore Modrian - intrattiene con Saverio un rapporto da maestro a discente. Anch'egli si lascia dietro enigmi (le sue poesie, la carta dell'esecuzione di Pascal, la Bibbia del Diodati).

Tutori spirituali i libri, quindi, ma anche le persone con cui il soggetto si incontra e parla; la narrazione che lo riguarda è punteggiata di dialoghi che segnano un progresso nelle sue acquisizioni sul mondo, o su di sé, o su un particolare momento della propria vicenda: le esortazioni alla scrittura rivoltegli dal dottor Modrian, la lunga 'lezione' del tipografo Ruben su Ungaretti e sulla gente di Carlomagno, il dialogo nella città di Siwa con l'esule del Sinai Amin, il breve scambio di battute, spezzettato, intenso - ma da parte di Saverio quasi afasico - con il poeta del Porto sepolto, la lunga e snervante conversazione-interrogatorio impostagli dal capitano Cocito dei servizi di sicurezza italiani, il dialogo quasi maieutico con cui lo intrattengono il monaco copto Azena, nel monastero di Abu Makar, e l'amata Fatiha nell'ospedale di Nabe al Maja.

Il dialogo come luogo di apprendimento, di svelamento di sé non è tuttavia l'unica forma di dialogismo del libro. Esso è presente anche come fenomeno di voce e interessa la strategia discorsiva (argomentativa) del narratore autodiegetico. Non mancano infatti, nel discorso autodiegetico del soggetto, esempi di argomentazione difensiva, consistente nell'integrazione e refutazione, in un blocco testuale a carattere valutativo, di un punto di vista sfavorevole al soggetto stesso. È questo un procedimento che rende trasparente l'insicurezza di fondo dell'enunciatore o forse, piuttosto, il suo irriducibile dualismo in quanto soggetto dell'enunciazione e soggetto dell'enunciato:

Comunque non è detto che preparare per qualcun altro porti sempre e
soltanto a degli sprechi, (p. 14)

Dunque lo faccio come ultimo tentativo di salvarmi la pelle e vi prego di
considerarla una ragione sufficiente. Non ne vedo altre plausibili. (Ib.)

dove appare fra l'altro una denegazione («non ne vedo altre plausibili»);

Certo che c'è l'antico porto, ancora perfettamente conservato, laggiù sotto la
sabbia dei bassi fondali. Chi non lo sa? (...) Il porto c'è, lo giuro io che non

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sono nessuno e lo hanno giurato anche grandi studiosi e illustri delinquenti internazionali. (...) Io comunque non sono un ladro e neppure un archeologo dilettante, men che meno un negromante. Ho solo fatto una sciocchezza; una follia, un gioco, (p. 16) „

dove «lo giuro» è un fenomeno di voce che richiama la situazione enunciativa
come luogo di interlocuzione.14

Con dialogismo, non ci riferiamo qui tanto al discorso metanarrativo, che pure abbonda nel testo, con richiami costanti all'attività intrapresa della scrittura, con attacchi e riprese del tipo «Per tornare a questa storia», «Per questa ragione, nel raccontarli, uso il passato: per tenermeli un po' discosti», e di cui valga qui un esempio, sottolineato metadiscorsivamente, di percursio («Dunque...Libro»):

«Una cosa ora io non vi posso raccontare.»
«Eh?»
«Perché?»
«Cos'è sta' roba che non vuoi raccontare?»
«Se vogliamo arrivare alla fine, (...) non posso dirvi tutto quello che è successo
nel loro viaggio attraverso la strada del sale che porta oltre gli Appennini. Né
quello che succédera quando Pascal e Sua arriveranno aile valli del Pinerolo».
«Ma almeno cerca di dircelo in due parole».
«D'accordo, ma sarebbe stata un gran bella storia.
Dunque soggiornano nei villaggi dove si raccolgono i librai clandestini che
stampano i testi riformati, le traduzioni proibite délia Bibbia. In uno di questi
villaggi, apprendono l'arte délia fabbricazione délia carta e le tecniche di
stampa. Ripartono con un sacchetto di caratteri di piombo e un piccolo telaio
per comporre le pagine e lungo il viaggio Pascal insegna a Sua a leggere di
modo che possa comporre il suo Libro». (p. 296)

Con dialogismo, ci riferiamo piuttosto a quello che Perelman e Olbrechts- Tyteca definiscono una forma di pseudo-discorso diretto: e cioè il dialogismo interno, sorta di dualismo dell'io narrante che internalizza nel suo discorso la «parola antagonista» (Bachtin su Dostoevskij 1929; it. 1968). Nella variante della sermocinano, come ipotesi e menzione di un punto di vista diverso dal proprio, si veda - oltre all'esempio sopra citato per l'argomentazione autodifensiva («Comunque non è detto che preparare per qualcun altro porti sempre e soltanto a degli sprechi») - anche

Da queste parti non è una cosa straordinaria fare una gita nel deserto, neanche
per un periodo piuttosto lungo, (p. 53)

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Una sera sono andato alla Montagna della Morte. Non che fossi di umore nero
o cose del genere, ma il portiere-caffettiere-factotum dell'albergo se ne vantava
come di una grande attrazione del posto, (p. 60)

Non c'era niente di eccitante in tutto questo, ve lo posso garantire. Anzi, mi
ero proprio scocciato. (...) No, non c'era proprio niente di eccitante in quella
situazione, (p. 70)

Altra forma di dialogismo interno è quella dell'interrogazione (non
retorica): con domanda e risposta, e sermocinatio

Dopo la lezione di Ruben forse che la mia vita è cambiata damblé, tutto mi si
è rivoltato dentro e il giorno dopo nulla poteva più essere come prima? No,
non è stato così, non così semplice (p. 52)

o con sole domande, qui non come forma di trasformazione in atto linguistico diretto di enunciati assertivi ma come forma di mimesi di un interrogarsi spaesato, di una difficoltà a decifrare il senso degli eventi, a dare un nome alle cose (all'interno della situazione comunicativa instaurata dal protagonista con Amin):

Ma io non mi sbilancio; cosa ne può sapere un ragazzo della mia età? Ad Alessandria ci pareva di essere tutta una nidiata noi italiani, noi compagni: forse quello era amore? Forse; ma ora io mi sento un po' scosso, un po' fuori di casa mia. È per via che mio padre se n'è andato, credo; lui che aveva il compito di tenere la nidiata tutta al calduccio sotto la coda. A proposito: mio padre se n'è andato o è morto? Vieni che ti porto a casa, e pluffete, il mare se l'è preso. E dov'era casa sua? In fondo alla diga vecchia? Dunque Amin, bravo pastore e guerriero sfortunato, affacendato capo di famiglia, lasciamo perdere questi discorsi che non portano da nessuna parte, (p. 67)

Lo stile

Anche a livello stilistico, come già nella struttura narrativa (racconto di primo grado e racconto di secondo grado) e nell'architettura instaurata dalle metafore (discesa-sosta/volo-azione), due modalità e tonalità s'intrecciano nel libro.

Nel racconto di secondo grado, prevale uno stile di tipo manzoniano, autorialmente omnisciente, simpatetico, punteggiato qua e là da parafrasi, paragoni e altri procedimenti retorici ad effetto ironico (prevalentemente per litote o attenuazione), pause descrittive, sovrabbondanza di nominalizzazione. Per quest'ultimo procedimento (corsivo mio):

Provava ugualmente disagio sia al cospetto dell'accogliente bellezza sia
dell'inospitale durezza, e la sera si sentiva assai più stanco di quanto era naturale
che fosse, preso da uno sfibramento di precarietà, come avesse proceduto tutto

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il giorno sull'orlo di un burrone. (...) Era venuto alla certezza che il suo
viaggiare era un privilegio accordatogli, ma il soffermarsi un torto che sarebbe
stato rimesso con la lama del coltello, (p. 193)

L'effetto di prosa letteraria (manzoniana) è dato anche dall'uso raffinato e
ironico della rinominazione tramite perifrasi attenuativa (corsivo mio):

Accadde un giorno che il mulo di Pascal fosse grandemente infastidito da una serpe mentre zoccolava lungo un sentiero, e di quell'inaspettato disturbo si lagnasse con gran vigore nel suo modo mulesco, tirando gran calci all'aria e sgroppando a terra il suo cavaliere.

Il mulo in questione era una gran bella bestia (...) Pascal l'aveva ricevuto in
saldo di una sua milizia in quelle terre - o, per meglio dire, l'aveva estorto con
buonissimi argomenti dalla taccagneria del signore sabaudo, (p. 193)

Nel racconto di primo grado il discorso di Saverio è invece insistentemente interpuntato di marche discorsive,15 di richiami alla situazione dell'enunciazione, con un controllo ravvicinato dell'udienza,16 con un effetto di 'parlato', intensificato anche dalla ricorrenza di espressioni di registro colloquiale ,17 di voci regionali o dialettali18 affiancate a parole arabe,19 di attestazioni d'incertezza sull'uso corretto della lingua.20 Il tutto all'interno di un discorso ora allucinato e poetico, ora iperbolico e favolistico, ora ironico e autoironico, ora referenziale ora straniante, tra falsa-ingenuità e tono sapienziale, da cui risulta un'immagine di enunciatore indisciplinato e amatoriale, goffo ma ardito, clown sbeffeggiante e struggente, la cui ambizione è pari solo alla messa in scena di sé secondo l'intrigante figura retorica dell'attenuazione, della modestia.21

La cifra stilistica di Maggiani, dove il lirismo e la comicità si incontrano, quasi per un risarcimento espressionista al sublime, sta nei procedimenti di metaforizzazione, nelle descrizioni ottenute tramite visualizzazione metaforica. È il caso, molto specifico, con occhieggiamenti al greco omerico ma anche a Fenoglio, di aggettivi composti a carattere metaforico o sineddotico: «neroviolette trecce», «nuvole azzurro-peciose», «luce biancocammello», «due lunghechiome»; ma è soprattutto il caso dei paragoni, di cui si daranno qui solo alcuni esempi, indicativi della fedeltà dell'autore a un 'programma stilistico' di restaurazione del sublime attraverso l'inclusione del 'basso':

Alessandria. Bella, grande e molle, spaparanzata nel deserto come una pisciata
di cammello che trova la sabbia giusta per diventare una rosa di silice, (p. 118)

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L'aria asciutta ha perso anche i minimi vapori del giorno e le stelle vengono giù
a cascata da un soffitto basso basso colorato di un violetto traslucido come
acquarsi direbbe che ti piovano addosso a catinelle, (p. 56)

Però mi sono fermato, ho frenato come un camion, alzando una nuvola di
polvere dentro il mio cuore, (p. 102)

Interessante, là dove Saverio conclude la sua storia di Pascal, è l'analogia posta tra il racconto orale, condotto a tu per tu con l'uditorio, e una faticosa pedalata in salita. Il Nostro ha appena finito di raccontare dell'estradizione di Pascal a Roma, del suo interrogatorio e martirio: la fatica dell'lnquisitore Xavier e di Pascal alla fine dell'interrogatorio è 'doppiata' da quella del narratore giunto alla fine della sua grande performance narrativa. Ormai allo stremo, anche Saverio, come Pascal, vuole essere lasciato andare:

Non ragionavo più, letteralmente; avevo parlato per l'ultima mezz'ora spinto unicamente dalla stessa rabbia disperata di un ciclista che non vuole darla vinta alla salita e pedala contro se stesso, disposto a consumarsi pur di finirla di patire, (p. 305)

La narrazione come costruzione del senso

Superata la prova, il cantore è 'riconosciuto' e accolto nella comunità («Hai proprio finito, Saverio, puttana Eva», p. 311): il suo è un bilancio positivo. Controllare lo svolgimento della propria vicenda, valutarne il procedere come un costituirsi di significato è quello che il soggetto enunciatore ha fatto fin dalle prime pagine, presentando le proprie vicende, o commentandole a posteriori, come una serie significativa di fatti in successione causale, una catena di 'svolte' decisive per l'acquisizione di una specie di saggezza (secondo un programma che, parodicamente, gli stava già nel nome). Tale controllo periódico della direzione di senso, realizzato dalla voce narrante in relazione alla propria vicenda narrata, collabora non meno dei fatti narrati a orientare verso un'interpretazione coerente, fondata su nessi di causa-effetto, e a sottolineare la funzione formativa degli eventi. Molti sono i commenti in questa direzione:

Certe cose sono successe e ne hanno fatte succedere delle altre, (p. 18)

È stata quella conversazione che ha definitivamente mandato a gambe all'aria
la mia vita. (p. 38)

devo dire alcune cose che mi sono capitate, altrimenti perdo il filo e quel poco
di lucidità che potrebbe finalmente aiutarmi a capire cosa mi sta succedendo,
(p. 35)

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Anche se ora, con tutto quello che è successo, sono cambiato parecchio e con i libri, il leggerli e lo scriverli, ho aperto tutta una vicenda che al momento giusto vi dirò. (...) Ma allora, il semplice fatto di leggere sulla spiaggia è stato come il rapimento di un ragazzino, come averlo voluto - come si dice? - plagiarlo, confonderlo. Qualcosa del genere, che ha portato poi la mia vita, senza che me ne accorgessi davvero e, peggio ancora, senza che potessi metterci il becco, in una certa direzione, per un certo cammino.

E tra le tante cose è successo che sono partito per andare a vedere il paese di
mio padre. Le circostanze che mi hanno fatto decidere sono state a dir poco
strane, (p. 36)

E si veda qui di seguito un procedimento riassuntivo di messa in prospettiva di quanto raccontato precedentemente, come a orientare la lettura, a suggerire un'interpretazione, l'esistenza di un percorso non razionalizzabile, ma pur soggiacente, di connessione tra l'esperienza del deserto e le azioni successive:

Ed io vado avanti. Ma nel deserto effettivamente qualcosa mi è successo, anche dentro, dico. I profughi del Sinai, Siwa e la puttana, il mio somarello e la fine che ha fatto, sono stati come delle esche di polvere pirica, dei detonaturi per tutto il resto che ho combinato. I fatti, presi uno per uno, non significano niente, è quando vanno a sedimentarsi dentro di noi che allora succede qualcosa che sfugge alla coscienza. Come la birra, ecco. La vita ci fermenta dentro; e con poco orzo e acqua fresca viene fuori uno schiumone che ti übriaca.

In questo senso va anche la riflessione conclusiva di Saverio, che ci offre un prezioso 'riassunto prospettico' della propria vicenda, di cui viene sottolineato il carattere necessitante, e dove si rivela la funzione di 'costruzione del sé' che il discorso su di sé assolve per il soggetto, (il che poi sarebbe a dire che il soggetto dell'enunciazione identifica se stesso tramite la costruzione di un sé fittizio):

Che possa sembrare verosimile o no, è un fatto che quello che sono adesso dipende in gran parte da un libro che ho trovato nella vecchia bottega di mio padre, un paio di poesie che ci ho trovato dentro e un biglietto che il loro autore mi ha consegnato in misteriose e straniere circostanze. Quello che sono e quello che non riesco ad essere, (p. 314 - corsivo mio)

dove risalta fra l'altro la centralità del libro, della parola scritta, nel processo
di orientamento del protagonista.

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II significato condiviso: un'allegorìa del circolo ermeneutico

Opera controcorrente nel panorama postmoderno della narrativa italiana, II coraggio del pettirosso costituisce una appassionata dichiarazione di fiducia nel 'genere romanzo', di cui è un esempio 'forte', per inventivité e piacere del raccontare, oltre che per la riflessione sulla scrittura, di cui si pone come allegoria. Il farsi della storia scritta s'inceppa quando il protagonista (narratore e autore) smarrisce il senso della propria scrittura, il nesso tra questa e la vita: ma il raccontare riprende, nella forma originaria del racconto orale, quando si ristabilisce il circolo ermeneutico, quando la storia diventa - oltre che storia per sé - anche storia per gli altri, storia degli altri. Nella prima pagina del romanzo, Saverio ci aveva detto che rivolgersi a un «voi», anche nel dubbio che questo «voi» non esistesse, lo avrebbe aiutato a scrivere, a fargli compagnia. «Del resto», aveva aggiunto, si trattava di «un atteggiamento a cui era per certi versi già abituato» in ambito culinario:

Vedete, a me piace, o perlomeno è sempre piaciuto, preparare cibi, cucinare pietanze. Io che ho vissuto per molto tempo da solo, l'ho sempre fatto pensando a un voi, ad almeno uno tra gli improbabili ospiti della mia cena. Non vale la pena, ve lo assicuro, cucinare per una sola persona, soprattutto quando la preparazione richiede del tempo e delle cure. Peraltro un buon piatto di granchi allo zafferano o un fui di fave, non lo si può preparare veramente bene per meno di quattro commensali; è, io credo, per via dei profumi più sottili che richiedono masse consistenti in cui potersi distendere in tutta la loro magnificenza, (p. 13)

Questa connessione, che istituisce e organizza tutta una somiglianzà di rapporti (sedimentatisi peraltro in una lunga e illustre tradizione) tra lo scrivere e il preparare (e condividere) pietanze, trova uno sbocco narrativo nel finale, suggerendo una lettura allegorica del romanzo come difesa del valore sociale della scrittura.

Narrando il farsi di una storia e il divenire di uno scrittore, // coraggio del pettirosso racconta anche il costituirsi di una comunità di interpreti, anzi l'impossibilità che il racconto proceda senza instaurare un dialogo di 'amorosi sensi' con il proprio pubblico. E Maggiani dice che vale la pena investire «tempo e cure» per inventare una storia che esprima valori e raccolga speranze, non rinunciando a usare gli ingredienti, ormai rari, di un'antica cucina casalinga. Qualcosa di cui si possa dire:

«Vorrei che tu capissi, figliolo, quanto ci ha fatto bene ascoltare la tua storia»
(p. 276)

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Conclusione

Abbiamo così rilevato la funzione strutturante del dialogismo, oltre che nell'evoluzione esperita da Saverio (conquista della maturità, conquista di un proprio ruolo all'interno della comunità), anche nella parallela vicenda di 'produzione' delle 'gesta apue', dove la creazione d'un mito fondante 'dialoga' con la narrazione di un ricostruire storico che ricorda il metodo indiziario. Abbiamo visto come, con sempre maggiore sicurezza, nel corso degli avvenimenti, il protagonista si avvii alla conclusione dell'immane compito, grazie soprattutto al dialogo (ideale e reale) col proprio gruppo di appartenenza. Le scelte retoriche, gli atti linguistici espressi nel suo discorso dalla voce del protagonista-narratore evidenziano il carattere formativo che il soggetto parlante attribuisce alle proprie vicissitudini, suggerendo così anche al lettore un percorso di lettura finalizzato più a stabilire che a decostruire i legami di senso, disposto cioè ad accreditare all'atto narrativo capacità di organizzazione e palesamento d'una casualità significativa nella catena degli eventi, in un mondo in cui - per statuto - nulla può accadere invano, per verosimile o improbabile che sia. La proposta dell'opera come allegoria della cooperazione, dell'intreccio dialogante di significati tra autore e interpreti, non soltanto letteraturizza e cala nella fiction l'astrazione fredda del circolo ermeneutico, ma va oltre ad additare - ed è qui il coraggio da pettirosso di Maggiani narratore - l'importanza di una dimensione etica, vorremmo dire politica, della scrittura. Maggiani non è scrittore ingenuo e con piena consapevolezza ripropone, controcorrente, in una provocazione accattivante, l'antica ricetta dell'epica, raccontata e tramandata oralmente, che faceva del narrare un atto costitutivo, organico alla comunità di riferimento. L'esperienza moderna del raccontare epico costituisce appunto il filo forte di questo romanzo di formazione.

Paola Polito

Università di Copenaghen



Note

1. Maurizio Maggiani, // coraggio del pettirosso, Feltrinelli, Milano, 1995.

2. Agosto, 1996.

3. Per una collocazione 'ligure' della scrittura di Maggiani, si veda Paola Polito (1998 ): II paesaggio interiore. Modelli cognitivi e 'liguricità', Actes du XIIIe Congrès des Romanistes Scandinaves, Août 1996, Jyvàskylà, Finlande, pp. 561-570.

4. Riferibili generalmente all'occorrenza (ellissi/menzione/ripetizione), alla durata (rapidità - es. percursio, qui p. 269 /lentezza/digressione), alla sequenza (scelte di montaggio: analessi/ prolessi).

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5. «non mi sentivo niente affatto brillante per la mia età e per la mia condizione» (p. 60); «perché non è che non fossi cosciente dei miei sbagli, solo che non potevo farci niente» (p. 72); «se fossi stato un altro, fossi stato un uomo con un po' di coraggio, fossi stato mio padre, avrei saputo cosa fare e forse - dico solo forse - avrei potuto fare qualcosa di buono. Ci ho pensato molto, e so esattamente cosa sarebbe servito in quella circostanza» (p. 75).

6. «So benissimo quante cose mi mancano per fare di me un uomo a posto, un buon esemplare del genere umano. In particolare mi è mancato, e non troverò mai la forza per farmelo venire, lo slancio necessario per trovare il porto sepolto, il mio porto naufragato in fondo al mare» (p. 314).

7. L'immagine è tratta dalla prima strofe di una canzone politica del cantautore genovese Fabrizio De André, La domenica delle salme, dal LP Le Nuvole ( 1990): «Tentò la fuga in tram/ verso le sei del mattino/ dalla bottiglia di orzata dove galleggia Milano/ non fu difficile seguirlo/ il poeta della Baggina/ la sua anima accesa/ mandava luce di lampadina/ gli incendiarono il letto/ sulla strada di Trento/ riuscì a salvarsi dalla sua barba/ un pettirosso da combattimento.» In Doriano Fasoli, Fabrizio De André, La cattiva strada. Da Carlo Martello a Don Raffaé, Edizioni Associate, Roma, 1996, pp. 240-243.

8. «Sempre che tu non voglia cambiare le regole. Lo fanno quelli che dal deserto escono malconci e turbati o non ne escono vivi; sembra impossibile, ma ce n*è ancora qualcuno che prova a fare di testa sua» (p. 57). «L'incidente mi è successo quando ho voluto cambiare le regole del gioco, quando ho voluto barare con quel mare mite che non mi aveva mai fatto niente di male. (...) Ho preso scafandro e bombole e sono sceso giù. Troppa roba addosso, troppe cose da ricordare, chiavette da tenere sotto controllo, orologio da non perdere di vista. E addio leggerezza» (pp. 167-168). «ormai mi ero accorto di aver sbagliato la risalita - troppo in fretta, troppo in fretta» (p. 168).

9. «Gran bella cosa l'amore: è l'unica vera sosta dal vivere che l'umanità conosca; è un attimo di pausa prezioso che ognuno può permettersi; chiunque tu sia, qualunque cosa tu faccia» (p. 313).

10. «se n'era andato in quel modo così poco paterno» (p. 32); «ora io mi sento un po' scosso, un po' mori casa mia. È per via che mio padre se n'è andato, credo; lui che aveva il compito di tenere la nidiata tutta al calduccio sotto la coda» (p. 62).

11. «Quello che rimane sinistramente incomprensibile sono le sue ultime parole» (p. 23).

12. «Cosa fosse per lui l'Egitto e quella città spaventevole oltre il mare rimane per me un mistero, perché al proposito non mi ha mai raccontato niente di interessante» (p. 20). «Mistero che avesse cosi tanti clienti, perché a me il suo pane non è mai piaciuto granché.(...) Mistero anche come sia arrivât» a quel forno; lui non me l'ha mai spiegato»(p.2l). «Per descrivere mio padre invece non saprei da dove cominciare (...) mai che mi abbia parlato del suo paese, se non incidentalmente» (p. 22).

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12. «Cosa fosse per lui l'Egitto e quella città spaventevole oltre il mare rimane per me un mistero, perché al proposito non mi ha mai raccontato niente di interessante» (p. 20). «Mistero che avesse cosi tanti clienti, perché a me il suo pane non è mai piaciuto granché.(...) Mistero anche come sia arrivât» a quel forno; lui non me l'ha mai spiegato»(p.2l). «Per descrivere mio padre invece non saprei da dove cominciare (...) mai che mi abbia parlato del suo paese, se non incidentalmente» (p. 22).

13. «A proposito, non ho ancora detto il suo nome: si chiamava Giovanni, Giovanni Pascale» (p. 23).

14. Dello stesso tipo autogiustificativo, presupponente un commercio illocutivo con degli interlocutori, sono i seguenti esempi: «Non è stata colpa mia, questo potrei giurarlo. Non lo è stata direttamente, anche se ho avuto le mie responsabilità. Fatto sta che la mia asinella è morta» (p. 72). «Questo, almeno mi va riconosciuto: non ho insistito oltre un certo limite. Oh, lo so che adesso non sto facendo altro che scrivere. Ma cosa c'entra? In questo modo qui cercano di curare un'abulia estrema. (...) come - onestamente, lo ammetterete - ho tenuto a precisare all'inizio di tutta questa faccenda» (p. 136).

15. Èil caso ad esempio della marca d'appoggio discorsiva per l'evidenziazione delle espressioni idiomatiche figurate: «Facevo una bella vita, se così si può dire» (p. 24); «O meglio, sono tornato a pezzi, come si dice» (p. 118).

16. Èil caso di allocutio, ai lettori: «sapete cosa c'è?», «se preferite», «non chiedetemi perché», «se rendo l'idea», «non ci crederete, ma», «non dimenticatelo», «avreste detto», «capite?», «beh, sapete cornee», «Cosa volete che vi dica?», «badate che», «avete mai sentito parlare di», «Non so che opinione voi abbiate».

17. Come l'insistito «granché», quasi un tic gergale: ad es., «Non è considerata granché «(p. 13); «Non è granché per un uomo» (p. 16); «il té e i dolci ben unti non avevano aperto un granché di breccia nella sua riservatezza» (p. 238); «ma lei non ci teneva un granché a quella parte» (p. 247).

18. «un bordegare», «scivertato», «stravaccati», «belùa».

19. «fui», «gallabiyya», «nabit», «sufi», «sahraui», «uadi», «jumhuriya», «chador», «cadì», «gebel», «ginn», «fellah», «ebn el homer», «hashish».

20. «Sarebbe cessato quel bordegume - come si dice in italiano? - che mi aveva preso a tradimento tra fegato e intestino» (p. 35); «Ma allora il semplice fatto di leggere sulla spiaggia è stato come il rapimento di un ragazzino, come averlo voluto - comesi dice?- plagiarlo, confonderlo. Qualcosa del genere» (p. 36).

21. «la mia ossessione. Ola mia menomazione» (p. 119).

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Riassunto

L'articolo indaga a vari livelli strutturali del romanzo II coraggio del pettirosso (rete metaforica, dialogismo diegetico, dialogismo come fenomeno di voce, strategie discorsive messe in atto dalla voce narrante, stile colloquiale) la complessa realizzazione testuale del genere narrativo /racconto in prima persona d'una storia di formazione/. Dopo aver individuato, sulla base di considerazioni d'ordine tematico e quantitativo, la prevalenza di tale genere romanzesco (se pure intrecciato ad altri), se ne ricostruiscono le tracce in vari ambiti d'analisi, rilevando in particolare l'importanza assunta nel romanzo dal piano dell'enunciazione come luogo privilegiato di manifestazione del soggetto quale esperiente una vicenda di maturazione. Il protagonista, qui, non solo si rappresenta in ciò che enuncia e riferisce, ma anche e soprattutto si svela nelle modalità specifiche del proprio discorso: la sua parola segue il percorso esistenziale di cui ci da testimonianza, l'ostinata ma anche fatale formazione di sé come portavoce epico di un popolo muto e diseredato. La progressiva costituzione del senso della propria vicenda, attraverso una quête che spazia in diversi ambiti, oltre ad essere manifesta a livello di enunciato (nei fatti), è soprattutto realizzata a livello di enunciazione, dove il sé fittizio si costruisce discorsivamente.

Bibliografia

Per la terminologia dell'analisi testuale e retorica:

Per il dialogo e il dialogismo:

M. Bachtin (1929; 1963): Dostoevskij. Poetica e stilistica. Torino 1968.

B. Mortara Garavelli (1985): La parola d'altri. Prospettive di analisi del discorso.
Palermo.

C. Perelman e L. Olbrects-Tyteca (1958): Trattato dell'argomentazione. La nuova
retorica. Torino, 1966.

Per un'applicazione della pragmatica linguistica all'analisi testuale: