Revue Romane, Bind 25 (1990) 2

Dall'Alberti al Fornaciari. Formazione della grammatica italiana

di

Gunver Skytte

Nel 1850 fu osservata dallo studioso italiano A. Torri la presenza di una grammatica volgare nel Codice Reginense Latino 1370. Si trattava di una copia eseguita secondo un manoscritto originale della biblioteca di Lorenzo il Magnifico. Solo nel 1908, Ciro Trabalza pubblicò il testo della Grammatichetta Vaticana in appendice alla sua Storia della Grammatica Italiana.

Sulla paternità del lavoro era già sorta una vivace discussione. Tra molte proposte apparivano i nomi di Lorenzo de' Medici e quello di Leon Battista Alberti. Soltanto negli anni sessanta, la questione della paternità fu risolta in modo convincente e definitivo con una ricchezza di argomenti filologici rigorosi, da Cecil Grayson, il quale poi curò una bellissima edizione del manoscritto, intitolata La prima grammatica della lingua volgare. La grammatichetta Vaticana. Cod. Vat. Reg. Lat. 1370 di Leon Battista Alberti, Bologna, 1964 (edizione che oltre all'ampia introduzione di Grayson contiene sia una riproduzione fototipica del manoscritto vaticano sia una trascrizione interpretativa di esso). Tornerò in seguito più dettagliatamente su questo piccolo lavoro quattrocentesco, importantissimo tramandatore di uno svolgimento decisivo nella concezione della lingua italiana, ossia del volgare.

A questo punto, invece, vorrei esporre le ragioni per cui il sopraddetto lavoro e altri simili della tradizione grammaticografica italiana mi sembrano ancora di interesse e di pertinenza, non soltanto da un punto di vista filologico, ma anche rispetto al concetto di grammatica nella linguistica italiana di oggi-

Parlando di grammatica ci si riferisce molto spesso a un'idea presupposta
di un lavoro costruito secondo una disposizione già data e basato su certe
categorie generalmente accettate, da non discutere. È questa concezione tra

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le più nocive per un fecondo svolgimento innovatore deHa descrizione linguistica,ma
nondimeno assai estesa.

Volendo liberarsi da tali preconcetti bisogna chiedersi se la struttura normalmente adoperata per la descrizione grammaticale della lingua italiana sia veramente quella più adeguata. Infatti, non pochi elementi dei principi di esposizione trovano la loro origine nella tradizione classica, greco-latina, ereditata senza riflessioni sulla loro adeguatezza e giustificazione nel nuovo quadro. E ugualmente, molti costrutti e elementi particolari della lingua italiana non sono stati trattati in modo soddisfacente, anzi, sono spesso stati tralasciati, passando inosservati, in quanto esorbitanti dal quadro trasmesso dalla grammatica latina.

Un'altra domanda che si presenta con particolare peso a proposito della lingua italiana è quello dell'effetto reciproco tra sviluppo della lingua e descrizione della lingua, ossia tra norma e uso vivo. Entro i limiti di questo articolo non sarà possibile trattare questo argomento: ciononostante ci pare importante additare la sua rilevanza.

Nella storia della linguistica in genere si può osservare uno sviluppo delle concezioni teoriche che oscilla tra due poli opposti, quello dell'universalismo e quello del particolarismo, concezioni che spesso collimano, rispettivamente, con orientamenti nettamente linguistici e orientamenti piuttosto filologici. Nella grammaticografia italiana, come in genere nella tradizione romanza, è stato preponderante l'orientamento filologico, a differenza della tradizione anglosassone e germanica che tende piuttosto verso un orientamento speculativo, linguistico. Anche se si tratta di un'asserzione sommaria, da prendere con un grano di sale, è tuttavia interessante notare che molti dei progressi teorici della linguistica si sono verificad nel mondo anglosassonegermanico (basti ricordare i modisti del Medioevo, i neogrammatici, gli strutturalisti e i trasformazionalisti), mentre il mondo romanzo ha contribuito notevolmente allo sviluppo metodologico della filologia, della stilistica e della retorica.

Vorrei avanzare l'ipotesi che tale divisione «epistemológica» dell'Europa occidentale trovi il suo germe nel ruolo esercitato dal latino, lingua universale,del Medioevo, e, in parte, anche del Rinascimento. Le ricerche sul ruolo del latino sotto tutti gli aspetti e sui rapporti tra lingue vernacolari e latino non sono ancora arrivate al punto da potersi dire esaurite. Offrono ancora nuove prospettive per avvicinarsi al mondo medievale e capirlo. Comunque è assai probabile che per il mondo romanzo, il latino non venisse considerato una lingua straniera, mentre per il mondo anglosassone-germanico doveva esserlo. Questo spiega anche il diverso uso del concetto di grammatica al Nord e al Sud. Grammatica nel mondo romanzo voleva dire semplicemente latino, mentre p. es. nell'uso dei modisti (un gruppo di studiosi, tra i quali anche alcuni di provenienza danese, presso la «nazione anglosassone» dell'universitàdi

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niversitàdiParigi, che verso la fine del '200 aveva elaborato una teoria del linguaggio basata su idee logico-filosofiche) aveva un significato universale. Il fatto di identificare grammatica con latino, nel mondo romanzo, ci fa inoltre intuire come venisse considerato il volgare: probabilmente era ritenuto una specie di registro informale. Il primo lavoro che tratta il problema del volgareè il De Vulgati Eloquentia (1303) di Dante (lavoro ignoto fino al '500). Consegue da quanto detto sopra, che la teoria, tanto affascinante, avanzata da Maria Corti (Dante a un nuovo crocevia, 1980), intorno all'influsso sul lavoro di Dante di teorie modistiche, sembra poco probabile. Le opere dei modisti furono lette e esposte presso le università europee per un lungo periodo, e anche presso l'università di Bologna all'inizio del '300. Comunque sussiste un manifesto divario tra le concezioni teoriche di Dante e dei modisti,come ha dimostrato recentemente in modo autorevole Franco Lo Piparo (1986), riferendosi tra l'altro all'uso differente del concetto di grammatica. - Lo studio della grammatica latina in Italia nel Medioevo e nel primo Rinascimentomira a dare una padronanza più squisita ed elegante della stilistica latina.

A metà '400 sorgono vari segni di incertezza sul rapporto tra volgare e latino, e cioè rispetto all'interpretazione del latino come la grammatica. Sintomatico è tra l'altro il Certame coronario, una gara di poesie (1441), che, su iniziativa dello stesso Leon Battista Alberti (1404-72), doveva servire a promuovere l'interesse e il gusto per l'espressione in volgare. Da notare anche la disputa, avvenuta nell'anticamera del Papa nel 1435, sull'esistenza di un vulgaris senno, nella Roma antica, riferita nel De verbis romanae locutionis, 1435, di Biondo Flavio (cfr. Tavoni 1986). Più interessante ancora, nel nostro contesto, è l'apparizione della prima grammatica in volgare, nata appunto in questo clima, e forse scritta, secondo il Grayson, intorno al 1445-50. La Grammatichetta vaticana è un lavoro piuttosto breve: nella trascrizione del Grayson comprende all'incirca 24 pagine. Essa mira a dimostrare lo status di lingua del volgare. La dimostrazione consiste nel rendere il toscano oggetto di una descrizione grammaticale. Nell'introduzione viene riferita una disputa sulla lingua latina che con ogni probabilità va identificata con quella tramandataci da Biondo Flavio. La lingua che l'autore della Grammatichetta intende descrivere è «l'uso della lingua nostra», cioè il toscano contemporaneo, e non soltanto quello scritto, ma anche quello parlato. Si tratta dunque di una grammatica descrittiva, basata su esempi costruiti, secondo l'uso vivo. L'esposizione comprende una breve introduzione sulle lettere e sul sistema vocalico. Poi segue un resoconto morfologico, diviso secondo le classi di parole: nome, pronome, verbo, preposizione, avverbio, interiezione, congiunzione. E questa la disposizione della grammatica latina, come esposta nell'opera di Prisciano Institutiones Grammaticae, VI sec. d. C, la grammatica latina più studiata nelle scuole italiane.

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Tra molti particolari interessanti, osserviamo il mantenimento dell'idea di flessione casuale dei nomi: el cielo, del cielo, al cielo, el cielo, o cielo (vocativo), dal cielo: riproduzione fedele dell'ordine dei casi nelle Institutiones. L'idea di una flessione casuale del sostantivo, indicata dal segnacaso, termine che sorge più tardi per designare la preposizione che «segna il caso», persiste a lungo nella tradizione italiana, probabilmente fino all'Boo. Il capitolo sulla morfologia verbale, come in tutte le grammatiche seguenti, è quello più approfondito. Quanto ai modi si distingue, secondo un criterio di contenuto, conforme, tra l'altro, al modello di Prisciano, tra ottativo (Dio eh 'io fussi) e subientivo (bench'io sia). Degna di nota è la «scoperta» di una forma nuova: «Hanno e Toscani certo modo subientivo, in voce, non notato da e Latini; e parmi da nominarlo asseverativo, come questo: Sarei, saresti, sarebbe... E dirassi così: Stu fussi dotto, saresti pregiato.»

Sotto le forme dell'indicativo si noti: «Hanno e Toscani, in voce, uno preterito quasi testé, quale ... si dice così: Sono sei è stato... E dicesi: leri fui ad Ostia, oggi sono stato a Tibuli.» (Esempio di cui si è servito Grayson, tra l'altro, per presumere che il libro sia stato composto durante il soggiorno romano dell'Alberti).

Alberti si pronuncia anche sui «vizi del favellare»: «E vizi del favellare in ogni lingua sono o quando s'introducono alle cose nuovi nomi, o quando gli usitati si adoperano male. Adoperanosi male, discordando persone e tempi, come chi dicesse: tu ieri andaremo alla mercati.» Ci stiamo avvicinando al concetto moderno di agrammaticalità!

C'è una freschezza e spontaneità in questo piccolo lavoro pionieristico che
non può fare a meno di farci rimpiangere che non abbia avuto un pubblico
contemporaneo: è rimasto ignoto fino alla riscoperta nell'Boo.

«L'idéal des grammairiens du XVIe siècle est de donner à une langue une régularité égale à celle du latin et du grec» scrive Louis Kukenheim (1932, p. 88). Ormai, il volgare è stato accettato, e il suo uso fuori discussione. Ma con l'invenzione della stampa e con la fioritura eccezionale della letteratura in volgare, nel '500 si fa urgente quanto mai la questione della lingua, e cioè, prima di tutto, la questione di quale volgare, ossia quale varietà d'italiano. Ma i problemi non si fermavano a questo punto: anche la singola varietà offriva una serie di problemi per la ricchezza di forme coesistenti in libera alternanza come risultato di uno sviluppo linguistico «libero», non regolato da convenzioni normative. Quindi, per creare una lingua scritta, che servisse come lingua della letteratura, si sentiva giustamente il bisogno di un intervento regolatore, non ultimo per quanto riguardava l'ortografia. In questo senso sembra pienamente giustificato l'impressionante intervento normativo dei grammatici del '500. Meno fortunata può dirsi l'eredità di funzione normativa e educatrice della grammatica, che essi, involontariamente, hanno trasmesso alla posterità.

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Dopo il caso isolato di Alberti nel '400, colpisce l'abbondante elenco di
grammatiche e lavori linguistici del '500: Quondam (1978) enumera ben 80
titoli, ai quali vanno aggiunte le numerose ristampe.

Nel presentare una modesta scelta dei lavori più importanti ricordiamo brevemente le prese di posizione rispetto al modello linguistico da adottare: 1) imitazione dei classici (Dante, Petrarca, Boccaccio); 2) italiano comune/cortigiano; 3) toscano moderno.

Nel 1516 viene pubblicata la prima edizione delle Regole grammaticali della volgar lingua di Francesco Fortunio. Il lavoro consiste di due libri che trattano la morfologia (I) e l'ortografia (II). Si tratta di un lavoro dotto e scientifico che presuppone un lettore dotto, scrittore o filologo. È influenzato dall'ammaestramento della grammatica di Prisciano, anche se l'autore dimostra la sua capacità di semplificare riducendo le classi di parole a quattro: Nome, Pronome, Verbo, Adverbio. Il Fortunio considera solo la lingua scritta, basandosi su una lettura (critica) «delle volgari cose di Dante, del Petrarca e del Boccaccio», da cui ricava le regole grammaticali: «... non mi potea venir pensato che sanza alcuna regola di grammaticali parole, la volgar lingua così armonizzatamente trattassono.»

La grammatica del Fortunio riscosse un successo enorme: solo nel '500 il numero di ristampe arrivò a 18; ma anche nei secoli successivi, perfino nella scuola di Basilio Puoti a Napoli (come ricorda il De Sanctis), si raccomandava lo studio del Fortunio.

Le Prose della volgar lingua (1525) di Pietro Bembo è, nonostante la stessa preferenza del modello dei classici, un lavoro ben diverso da quello del Fortunio. Il Bembo sceglie il dialogo come forma della sua esposizione, conforme ai gusti del tempo, ma, a prima vista, assai lontana dall'idea moderna & grammatica. Mentre il Fortunio non si occupa affatto della variazione stilistica, la grammatica del Bembo ha un gusto assai estetizzante. Nel dover scegliere tra varie forme o vari tipi di costrutti, il Bembo esprime le sue preferenze parlando p. es. di «molto più di vaghezza», di «giudicio dell'occhio», di «piacevolezza» ecc. Da allora la stilistica fa parte indispensabile della grammatica italiana.

L'Alberti aveva identificato una nuova forma dell'italiano, sarei, denominandolal'asseverativo. Nel Fortunio, invece, il condizionale viene considerato una variante dell'imperfetto congiuntivo: è il modello latino che disturba e induce a mescolare forma e contenuto. Il Bembo, trattando il verbo, osserva: «Ora si dice di lui (il verbo) in quella parte nella quale si parla condizionatamente:Io vorrei che tu m'amassi e Tu ameresti me, se io volessi... Ne'quali modi di ragionari, più ricca mostra che sia la nostra lingua, che la latina...» L'espressione condizionalmente è commentata da G. A. Padley (1986): «Bembo has thè distinction of being thè first vernacular grammarian to use thè term 'conditionaF, but he too seems unable to extricate this tense from

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subjunctive forms with similar meanings.» Infatti, come lo ha dimostrato con chiarezza R. Petrilli (1986), il Bembo lo usa per indicare il contenuto, e non particolarmente la forma. È soltanto con la grammatica di Rinaldo Corso Fondamenti del parlar toscano (1549), che viene adoperato in modo univoco il termine condizionale per designare la forma.

Col Fortunio, e soprattutto col Bembo, inizia il lungo elenco di esempi
«vaganti» che si tramandano di grammatica in grammatica fino ai giorni
nostri.

Le questioni morfologiche, come p. es. la formazione del plurale dei sostantivi, ossia il numero del più, contrapposto al numero del meno, e soprattutto la morfologia verbale continuano a formar la parte essenziale delle grammatiche del '500.

Così anche nella Grammatichetta (1529) di Giangiorgio Trissino, propugnatore dell'italiano comune o cortigiano. Ma oltre alla morfologia verbale cominciano, presso il Trissino, a sorgere tentativi di interpretare l'uso dei tempi: «E perché il tempo sempre corre a guisa di rapidissimo fiume, però il presente è brevissimo; onde per uno spazio solo con una voce si dinota ... Il passato poi, ha quatro divisioni, l'una delle quali dinota la aczione o passione passata ben, ma lasciata imperfetta; e questo si chiamerà «passato non compito» come è io honorava. L'altra dimostra la aczione o passione compita ben, ma non ditermina né molto spazio né poco che le sia seguito; e questo si chiamerà «passato indeterminato», come è io honorai.»

Mentre i grammatici italiani erano ancora intenti a risolvere problemi morfologici e ortografici entro i limiti di un quadro grammaticale di cui non si metteva in dubbio la validità teorica, nell'Europa del Nord fu di nuovo al centro dell'interesse il modello teorico della descrizione linguistica: cominciano le speculazioni razionalistiche, e con ciò un nuovo approccio all'universalismo. Di particolare interesse nel presente contesto è il lavoro linguistico dello studioso inglese T. Linacre De emendata structura Latini sermonis (1524), lavoro noto anche in Italia.

All'ammaestramento di questo insigne e illustre studioso si professa grato Pierfrancesco Giambullari, nel proemio alle Regole della lingua fiorentina (1551-52): «Non ti sia maraviglia, amico lettore, se quasi in tutta questa operetta, riconoscerai, l'ordine, i concetti, et le parole del dottissimo Linacre nella sua Emendata struttura del parlar latino.» Infatti, il Giambullari è il primo ad occuparsi di questioni di definizione ecc... Così egli dichiara decisamente a proposito della flessione casuale dei nomi: «II nome nella nostra lingua non ha caso alcuno.»

Nel lavoro molto ampio del Giambullari appare, per la prima volta nella tradizione della grammatica italiana, una parte sintattica, «le costruzzioni», che comprende il rapporto funzionale tra i membri della proposizione: «La costruzzione è un debito componimento delle parti del parlare; ordinate et

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disposte infra loro, in quello stesso modo, che ricerca la retta regola della grammatica.» La lingua descritta è l'uso vivo, parlato e scritto, di Firenze, e i destinatari sono «e' forestieri» e i «giovanetti che bramano di sapere regolatamenteparlare e scrivere». L'opera del Giambullari, talmente diversa dalle grammatiche in genere del '500, rimane inosservata dai contemporanei.

Mentre nel lavoro del Giambullari può disturbare un po' l'atteggiamento troppo fedele verso il maestro, possiamo constatare una ricezione assai matura del razionalismo, filtrata attraverso una mente più cosciente e originale, nell'opera Della Lingua Toscana di Benedetto Buommattei, Pubblico lettore di essa nello studio pisano e fiorentino (1. ed. 1623,1 libro, 2. ed. 1643,1 +II libro). Oltre ad essere una delle grammatiche più belle della tradizione italiana, è anche la prima grammatica ragionata in Italia, pubblicata molti anni prima della famosa Grammaire de Port Royal (1660).

L'esposizione del Buommattei mira a descrivere: «La lingua che ne' miglior paesi della Toscana volgarmente si parla, e dalle più celebri Nazioni d'ltalia quasi comunemente si scrive...», ed è destinata all'insegnamento pratico. La grammatica è divisa in due libri. Il primo libro consiste di sette trattati, di cui il primo ha per oggetto la lingua in comune, servendo all'autore per esporre le sue idee universalistiche e i suoi principi linguistici in genere. Nel secondo è esplicato il concetto di Orazione, corrispondente all'atto linguistico, che può essere sia «scrittura» che «voce». I trattati 3-7 descrivono l'ortografia e la fonetica. Il secondo libro tratta, conformemente alla tradizione, le classi di parole: nome, segnacaso, articolo, pronome, verbo, participio, gerundio, proposizione (NB = preposizione), avverbio, congiunzione, interposto ( = interiezione) e il «ripieno» ( = le espressioni pleonastiche). Per la classificazione dell'infinito, cfr. Skytte, 1988, 41 e 1989, in corso di stampa.

Dunque, per quanto riguarda l'ordine dell'esposizione, il Buommattei non è riuscito a iiberarsi dalla tradizione. La novità dei Buommattei si trova invece nel suo procedimento scientifico rispetto ai dettagli, nella sua spontaneità davanti ai problemi, nella decisione con cui si rifiuta di accettare senza un attento vaglio preventivo le opinioni già date («non tirato dall'autorità, ma persuaso dalla ragione»).

Anche se accetta l'idea di procedere secondo l'ordine tradizionale, il Buommattei non lo fa senza riesaminare criticamente il numero delle classi di parole: «Onde perché i Latini dicevano tutti con una voce uniforme: Partes orationis sunt odo ...», non bisogna ripeterlo meccanicamente, come fanno molti dei grammatici italiani: «... con la medesima cantilena: Otto, come dei sapere, figliuolo, sono le parti del parlare...».

Attorno alla convenienza di distinguere tra segnacaso e preposizione (pressoBuommattei «proposizione»), il nostro si esprime così: «Gridan alcuni ostinatamente, che vano è il nostro pensiero, mentre di distinguere ci argomentiamola proposizione dal segno del caso, parendo loro una cosa stessa.

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Io so benissimo, che contro agli ostinati non si può guadagnar mai cos'alcuna.Ma io so ancora, che gli uomini ragionevoli si appagan delle ragioni; perciò scrivendo io solo per questi, mostrerò in che l'una dall'altro sia differente...»

A proposito dei pronomi atoni, il Buommattei avanza la proposta di considerarli
«mezzi affissi», proposta che ricorda le teorie moderne sullo status
flessivale di questa categoria.

La fortuna della grammatica di Buommattei fu enorme. Però, né lui, né Salvadore Corticelli, Regole ed Osservazioni della Lingua Toscana (1745), hanno saputo superare il limite della proposizione. A parte il lavoro del famoso Cinonio, Osservazioni della lingua italiana (1644), opera che non abbiamo avuto modo di consultare, le Regole del Corticelli sono probabilmente l'unico lavoro degno di nota nel lungo elenco di opere mediocri del '700 e della prima metà dell'Boo.

Nel Proemio Agli studiosi della lingua toscana, il Corticelli ricorda i più celebri tra i suoi predecessori, osservando che essi sono troppo difficili da capire. Egli si propone quindi di «agevolare a' giovani lo studio» attraverso una migliore sistemazione delle regole, attirando pure l'attenzione sulla costruzione («nella lingua latina abbiamo pronte alla mente le regole della costruzione, non così nella volgare»), per la prima volta dopo il tentativo di Giambullari. Soprattutto la descrizione dei verbi è assai precisa e dettagliata, tanto da far pensare ad una grammatica valenziale. Gli esempi sono di «buoni e approvati toscani scrittori», soprattutto quelli del «buon secolo», con una palese preferenza per il Boccaccio.

Nel 1881 viene pubblicata la Sintassi italiana dell'uso moderno, di Raffaello Fornaciari. Questo lavoro segna un passo importante nella grammaticografia italiana, offrendo un modello di sintassi che oltre alla costruzione dei singoli membri della proposizione, tratta anche la proposizione in generale e le proposizioni subordinate. Questo modello servirà come punto di partenza per la grammatica italiana del Novecento.

R. Fornaciari (1837-1917), da giovane, si era dedicato agli studi classici e alla linguistica comparata, ed era, conforme alla tradizione italiana, propugnatoredel «bello scrivere». Dopo gli studi insegnò l'italiano in un liceo fiorentino, attività che certo avrà contribuito alle qualità pedagogiche della Sintassi. Di fatto (come dichiara apertamente lo stesso autore nella Prefazione),il suo non è un lavoro scientifico. Come riuscirà su questa base a rinnovare in senso decisivo il concetto di sintassi nella grammaticografia italiana? La spiegazione somiglia non poco a quella addotta a proposito della grammatica di Giambullari. Fornaciari, grazie ai suoi studi di linguistica comparata, aveva letto con ammirazione la grande grammatica delle lingue romanze di Friedrich Diez {Grammatik der rotnanischen Sprachen, 1836-43), e ne aveva perfino curato un compendio italiano delle parti riguardanti l'italiano(1872),

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liano(1872),«in maniera peraltro assai infelice» (Tagliavini, 1962, p. 8). Infelice o meno, questo lavoro servì al Fornaciari per rendersi familiare la struttura della Grammatica del Diez, per poi poterla calcare fedelmente nella sua sintassi, a vantaggio della grammaticografia italiana.

Anche nei dettagli si può notare un proficuo risultato dell'assidua lettura dell'opera tedesca. Nonostante la sua alta frequenza dai primi tempi del volgare, il costrutto di stare col gerundio, non era mai prima stato registrato da una grammatica italiana (Skytte, 1989), omissione dovuta al fatto che mancava il costrutto corrispondente in latino.

Sebbene il sottotitolo, promettente, annunci la descrizione dell'uso moderno, la grande maggioranza degli esempi è ricavata dalla tradizione e dal «buon secolo». Tuttavia vengono citati anche Manzoni, Pellico, Tommaseo e altri scrittori ottocenteschi. La critica contemporanea, e soprattutto quella tedesca, non tardò a rilevare il carattere arcaizzante e normativo del lavoro, forse esagerando un po' ingiustamente. Ancora oggi si può consultare Fornaciari con profitto.

Con un tantino di ironia si potrebbe osservare che, se ciò è vero, non è tanto merito del Fornaciari quanto del carattere di stasi della grammatica italiana del '900, almeno fino agli anni settanta. L'orientamento prevalentemente filologico della grammaticografia italiana è stato ulteriormente accentuato per via del forte influsso del pensiero crociano. Tra i tratti più salienti che la grammatica italiana ha ereditato dalla tradizione, si trova il carattere normativo, l'idea della grammatica come un mezzo di educazione, una guida al «bello scrivere», quasi una stilistica. La sistemazione a classi delle parole, il punto di partenza morfologico e i paradigmi considerati pertinenti (anzi, le caselle rimaste a disposizione della grammatica latina), in breve, lo schema tramandato e accettato senza discussione, tutto questo ha contribuito a impedire una strutturazione ex novo della grammatica italiana che considerasse i caratteri particolari del sistema linguistico italiano.

Il carattere normativo della grammatica ha indubbiamente esercitato un effetto stabilizzante sulla lingua scritta e letteraria. Soltanto a partire dagli anni '70 si assiste a una dissoluzione dei limiti artificiali di correttezza, un avvicinamento della lingua scritta alle forme più vive della lingua parlata.

Nello stesso tempo si è fatta viva una nuova e giovane generazione di linguisti italiani che hanno già per tante segnalazioni dimostrato la loro volontà di rinnovamento (Skytte, 1988). La situazione della grammatica italiana in questi anni sta cambiando in modo interessante e positivo. Tuttavia, per cambiare in modo radicale il concetto di grammatica, la via da percorrere sembra ancora lunga.

Gunver Skytte

Università di Copenaghen

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Riassunto

Larticolo descrive il formarsi della grammatica italiana, a partire dalla prima grammatica volgare di L. B. Alberti (metà '400) alla Sintassi del Fornaciari (1881). Nell'esaminare le varie fasi di innovazione si rileva l'influsso della tradizione anglosassone-germanica (in genere di orientamento speculativo rispetto all'orientamento filologico del mondo romanzo) nei momenti di innovazioni riguardanti il modello. L'eredità della tradizione greco-latina nonché il carattere normativo rimangono tuttavia tratti persistenti della grammaticografia italiana.

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