Revue Romane, Bind 21 (1986) 2

Parodia della tragedia classica e riforma teatrale nel Settecento:

di

Domenico Pietropaolo

Con la pubblicazione di Rutzvanscad il giovane, "arcisopratragichissima tragedia", il senatore véneto Zaccaria Valaresso nel 1724 entrò a parteggiare attivamente contro i grecisti nella nota polemica sulla riforma del teatro tragico svoltasi in Italia nella prima metà del Settecento.l Il grecismo intransigente di Domenico Lazzarini, il cui Ulisse il giovane è direttamente parodiato nel Rutzvanscad, servì al Valaresso come punto di partenza per riprendere in chiave satirica i temi fondamentali del dibattito, quali la presunta paradigmaticità estetica della Merope di Scipione Maffei, che Culicutidonia, protagonista femminile della parodia, legge e rilegge con la stessa sollecitudine di molti europei del tempo, e la grande banalità del dilettantismo drammaturgico, talmente diffuso da fare invocare all'autore l'intervento di un Don Chisciotte contro le tragedie, capace di liberare una volta per sempre il nobile genere dalla dilagante mediocrità in cui era caduto. Se in questa parodia non si volesse vedere altro che insofferenza personale, ci si potrebbe limitare a ricordarla sommariamente — così ha fatto in genere la critica - come spassoso aneddoto letterario, citandone solo i proverbiali ultimi versi. Ciò però non terrebbe conto del fatto, ovvio quanto importante, che con la pubblicazione di questa operetta si inserì nella diatriba fra letterati di professione un rappresentante della classe dirigente del più qualificato pubblico teatrale d'ltalia ad esigere che la riforma in corso rendesse la tragedia sensibile alla cultura dello spettatore moderno, e questo è un motivo sufficiente per prendere sul serio il suo contenuto teorico e programmatico.

Naturalmente il Valaresso non fu l'unico a considerare la storicità dello spettatoreuna componente fondamentale della riflessione sulla tragedia; già prima di lui seri tentativi in questo senso erano stati fatti dal Maffei e da Pier Jacopo Martello,mentre dopo di lui quella via fu battuta da molti, inclusi Giulio Cesare Becelli,Pietro Calepio e Francesco Maria Zanotti. Si tratta in effetti di tutta una corrente teorica che nel Rutzvanscad trova solo una efficace espressione teatrale. È essenzialmente per questa ragione che la parodia suscitò tanto scalpore subito

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dopo la sua pubblicazione. Il Maffei reagì immediatamente, stendendo in una notte un Culicutidonio, che però non fece mai pubblicare.2 Esi sentì in dovere di rispondere anche Michelangelo Boccardo con la sua "arcipiuchesopraridicolissimatragicommedia" Mintidaspe il vecchio, in cui fece a sua volta la parodia del Rutzvanscad riproponendo con energia il modello di tragedia in esso rifiutato.3

Il prologo del Mintidaspe documenta meglio di qualsiasi testo dell'epoca il clima poetico e critico in cui fu concepito il Rutzvanscad. Entra in scena Atlante, lamentandosi che negli ultimi anni il mondo è diventato troppo pesante per le sue spalle. Viene in suo aiuto il mago Frisisomoro, il quale gli fa deporre il globo a terra e quindi lo tocca con la sua verga: il globo si spacca e da esso esce un grande numéro di poeti che litigano fra di loro. Frisisomoro spiega: "Questi son poeti,/ che contendon fra di lor moderni e antichi." Da questo spettacolo Atlante comprcndc facilmente il motivo délia sua stanchezza: "Non rni stupisco prù se tanto grave / m'affaticava il mondo, / s'egli è fatto il bordello or de' poeti!" (p. 8) Dalla sua prospettiva il grande dibattito sulla riforma del teatro tragico si riduceva chiaramente ad un contrasto disordinato, motivato da spirito di polemica e condotto senza impegno programmatico, anche se sulle orme délia querelle fra antichi e moderni. In realtà perô le moite questioni drammaturgiche dibattute in quegli anni furono stimolate non tanto da peculiarità personali, riconducibili o no alla querelle, quanto dal programma arcadico di restaurare il buon gusto in tutti i generi letterari e dalla polemica Orsi-Bouhours sulla presunta infériorité délia poesia italiana rispetto a quella francese. Le numerose proposte teoriche e le moltissime realizzazioni pratiche si divisero in due schiere:daunlatounritorno completo ai elassici, proclamato in nome di un'ortodossia culturale che pretendeva imporsi corne necessaria adesione ai principi di estetica teatrale da essi derivabile, e dall'altro la recerca di forme consapevolmente nuove che, in rispondenza alla sensibilité dello spettatore moderno ed in opposizione a qualsiasi concezione arcaistica dell'arte, potessero ricuperare lo spirito dei elassici senza ricalcarne la lettera, in un processo di attualizzazione culturale ispirato in gran parte al teatro francese del Seicento. I parametri principali di questa tensione culturale sono drammatizzati nella concatenazione di testi che qui c'interessa. L'intento polemico résulta chiaro sin dai primi versi di ciascuna opéra, corne si puô vedere dalle seguenti citazioni:

Ulisse

Rutzvanscad

Pria che sparisca in cielo,
nunzia del nuovo giorno,
la mattutina Stella

Pria che sparisca in ciel... (meglio aile curte)
prima che venga il dî

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Mintidaspe

Prima che venga il dì (diciamo meglio)
pria che nasca il sol

Fedele ad un concetto aulico della poesia drammatica, che vede la resa estetica del linguaggio come una funzione della sua formalità letteraria, YUlisse del Lazzarini si presenta allo spettatore all'insegna di un registro stilistico dignitoso ed accademico, sancito dalla tradizione cruscante ed aristocraticamente lontano dai modi tanto più democratici potenzialmente autorizzati dalla lingua letteraria contemporanea globalmente intesa. Il referente su cui si regge la portata semantica di tale tipo di poesia è profondamente radicato nell'universo ormai artificiale di antichi testi di lingua e di poesia piuttosto che nella realtà culturale del mondo contemporaneo. Per il Valaresso l'esigenza di un teatro tragico coevo con l'epoca comporta soprattutto l'uso di un nuovo codice espressivo, facilmente accessibile al grande pubblico teatrale e sensibile alle sue istanze culturali. Pertanto al linguaggio volutamente circonvoluto, copioso, metaforico ed arcaizzante del Lazzarini, egli contrappone un modo conciso, lineare e moderno, tale da porre il discorso testuale in naturale rapporto di continuità con la lingua viva dello spettatore colto, senza mai rinunciare al suo necessario senso di sostenutezza stilistica. Il suo rifiuto del modello proposto dal Lazzarini e poi anche dal Boccardo, che se ne era fatto difensore, è anzitutto un'accusa di povertà semantica nel codice semiologico, poiché difficilmente il pubblico rappresentato dal Valaresso avrebbe potuto percepire in esso segni che si riferissero in modo autentico alla propria realtà extraletteraria; ma è anche un'accusa di indisponibilità pragmatica, in quanto un sistema obsoleto di segni non può che avere funzioni comunicative molto scarse nello spazio sociolinguistico di uno spettatore contemporaneo.

La contestazione del registro peculiare alla concezione della tragedia derivante
dalla nozione aulica della poesia è efficacemente espressa nel seguente dialogo
del Rutzvanscad:

Mamaluc: Regina:l'sono...
Culicutidonia: / a una mia pari? /, ah indegno!
Cos'è quest'/? Ti credi
far camminar qualc'asino restio?
Mamaluc: Poichè si parla anco alla Nuova Zembla
nell'itala favella,
parlar io vi volea con nuova Crusca
e con termine assai
nell'itale tragédie usato. (p. 42)

La lingua altamente formalizzata delle "itale tragedie" ("itale tragedie", si noti, e

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non solo Ulisse il giovane), falsamente giustificata come dignità artistica, riduceva le loro possibilità di autentica fruizione nei teatri moderni. Con questo discorso il Valaresso, oltre ad affermare la necessità di definire l'arte drammatica da una visuale che trascenda i moduli di una considerazione retorica per accogliere appuntoil gusto del pubblico, si inserisce nel dibattito linguistico dei riformatori del primo Settecento e si associa alla corrente che dalle tesi di parco modernismo nei riguardi dei toscanisti arcaizzanti giunge qualche volta fino all'insofferenza totale del purismo, avvicinandosi alla nota posizione presentata da Francesco Arizzi nel Toscanisno e la Crusca o sia il cruscante impazzito.4 Già il Martello aveva proposto in sede teorica un "favellare che il più che si può al naturale, all'accidentale, al vero" si accostasse, e perfino il Gravina nel prologo delle sue sfortunate Tragedie cinque aveva fatto dire alla personificazione della tragedia: "Non sperate da me favella turgida / sinor venduta a voi per lingua tragica."s In questo contesto, un linguaggio esemplato su una retorica arcaizzante rappresentaun misconoscimento del carattere sociale del teatro e quindi la totale sconfìttadelle possibilità referenziali del discorso teatrale, come pure la capitolazione dell'autore di fronte alla responsabilità che la scena sempre impone di comunicare con immediatezza con il pubblico contemporaneo. Pochi anni dopo la pubblicazionedel Rutzvanscad riecheggiando questa tesi dirà Pietro Calepio — ma il motivosarà ormai un luogo comune - che i "modi di dire troppo lirici" non sono altro che "vani giri di parole."6

La parodia del linguaggio tragico viene eseguita dal Valaresso in un discorso che funziona simultaneamente su due livelli stilistici, grave e beffardo, ma che si risolve in un'unica espressione tragico-caricaturale, ora degradando lo stile poetico mediante l'impiego di un prosaismo che ne deforma il contesto (e.g., "Che gli alti / numi v'arrestino da un'opra / che condurrawi all'ultima rovina / precipitevolissimevolmente" p. 26) ed ora solennizzando motivi scatologici (e.g., "un largo e profondissimo condotto,/ di fina porcellana adorno tutto,/ sotto di cui rapido corre il fiume,/ fé fabbricare il re Tettinculuffo,/ per ivi scaricare con grandezza / tutta la puzzolente maestade / de' regi serenissimi escrementi," p. 77). Non mancano tuttavia situazioni in cui viene sfruttata allo stesso fine l'ambivalenza semantica della parola (e.g,, "siete la maggior donna che vi sia/ ...d'ogni maggior applauso meretrice," p. 71), né altre in cui il rifiuto della convenzionalità lessicale è reso in modo esplicito. E qui basta ricordare, oltre al già citato caso di pria e prima nei versi iniziali del modello e della parodia, l'episodio in cui l'astrologa, poco dopo l'apostrofe "0 Diana! 0 Furie ultrici!" (p. 15), riconosce di aver offeso la tradizione e ricompare in scena dicendo:

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Scusate se ritorno: Io non ben feci
l'uffizio mio: chiamai
Diana, e dovea dir Ecate Trina,
e le Furie dove chiamar Erinni. (p. 16)

In effetti la convenzionalità espressiva auspicata dal modello parodiato costituisce nel primo Settecento niente di meno di un'interlingua tragica, e cioè un gergo poetico artificiale ritenuto capace di esprimere con efficacia e dignità estetica lo spirito della tragedia ideale, senza correre il rischio di indebolire il discorso con la sovrapposizione di registri inadeguati, rischio che presumibilmente si correrebbe se si facesse uso della lingua letteraria secondo il suo assetto contemporaneo. Ma una tale interlingua può sussistere solo chiedendo al pubblico di isolarsi dal grande contesto culturale del presente per entrare nella realtà formale della favola, fatta di uccisioni, oracoli, indovini, mitologia ed incesti, tutti indicati con precisa nomenclatura e con formule perifrastiche da tempo cristallizzatesi nella tradizione. Ma il pubblico rappresentato dal Valaresso, formatosi alla scuola dell'Arcadia, si rifiuta di troncare i suoi legami con la sensibilità moderna, riconoscendo come illusorio ogni tentativo di rivivere l'arte del passato nel presente e pretendendo invece che il testo si avvicini a lui attualizzandosi, poiché è il testo che ha la responsabilità di rendere possibile e significativo, sul piano culturale come su quello umano, l'atto di comunicazione cui — in qualità di emittente — da l'avvio. Il testo che compie con successo questo sforzo è teatro vivo; tutto il resto è curiosità

L'ipotesi di partenza di questo atteggiamento critico colpisce il classicismo nel suo presupposto teorico fondamentale, che è quello per cui la ricerca estetica si risolve sempre in una ricerca filologica, in quanto un modello di tragedia può rispondereai requisiti di un'estetica autentica solo nella misura in cui è filologicamentecorretto nella sua forma. Di conseguenza un programma di riforma della tragedia deve articolarsi come rivendicazione dei modi creativi degli antichi maestri,tradotti in serrata precettistica ed imposti sia al drammaturgo, da cui si esige autenticità classica, sia agli spettatori, ai quali si chiede di compiere lo sforzo filologico necessario per apprezzarne l'arte. La sua possibile portata semantica nel contesto culturale del Settecento ed il suo potenziale carattere pragmatico nella catena di comunicazione che lega il testo allo spettatore sono considerazioni decisamente secondarie, poiché concernono dimensioni testuali utili all'arte ma non necessitati da essa. "A me basterà," dichiara Lazzarini nella lettera dedicatoriapremessa all'edizione padovana dell'Ulisse (1720), "se la tragedia bene stia nelle sue parti, che a questo ho indirizzato il mio studio e a questo gli uomini scienziati guardano."7 Il codice della tragedia è sensibile cioè ad un solo principioorganizzatore: quello dell'economia interna del testo o della compatibilita

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sintattica dei suoi elementi costitutivi. Il rapporto mimetico testo-natura ed il rapporto catartico testo-lettore, che sono i due cardini fondamentali della teoria aristotelica e pseudoaristotelica della tragedia, sono del tutto assenti dalla riflessionelazzariniana. Il compito del drammaturgo è per lui essenzialmente un compitodi semiología sintattica, da svolgere entro i parametri della forma canonica del teatro classico, e non la drammatizzazione di aspetti importanti della propria realtà, come lo era stato per i grandi tragediografi greci. L'imitazione proclamata dai poeti e dai critici grecheggianti che a lui fanno capo non è imitazione della creatività greca ma imitazione dei prodotti di quella creatività. Nell'ambito di un dibattito sulla riforma del teatro, il grado di genuinità estetica che si può riconosceread una tragedia siffatta corrisponde in gran parte alla percezione che l'autore ha della matrice classica ed è condizionato dalla misura in cui egli si mostra cattedratico nella sua apologià teorica di essa, mentre il rigore dello sforzo richiesto al pubblico è una chiara indicazione del livello di aristocraticità accademicache si vuole conferire alla tragedia come forma d'arte.

Scrupolosamente ligio al modello greco, YUlisse del Lazzarini non ha suddivisioni in atti e scene, e la favola, per usare una formula dell'Algarotti, è un Edipo al rovescio.B Il Valaresso imita a sua volta la struttura esterna deWUlisse, ma solo per demolirla, mettendone in ridicolo il meccanismo che la fa funzionare, convinto come è che non si possa pretendere di "rendere grate all'udito e alla vista" dello spettatore cose che invece offendono la sua raffinata sensibilità di uomo moderno.9 In quanto all'udito però bisogna dire subito che i colpi vibrati dal Valaresso non sono sempre diretti al Lazzarini, perché in questo aspetto della tragedia egli non era stato pedissequo imitatore dei greci. Era stato il Gravina infatti e non il Lazzarini, che néìVUlisse si servì di settenari ed endecasillabi sciolti, a proporre l'imitazione della varietà del verso greco, "mischiando", osserva il Calepio, "agli endecasillabi gli anapesti, gli ellenici e talor anche i giambi".lo Al Gravina e non al Lazzarini è diretta la satira del Valaresso quando Aboulcassem,il quale funge da coscienza critica nella parodia, dichiara che se un nunzio avesse portato al tragediografo piuttosto che ad un suo personaggio brutte notizie dei propri figli, "negli occhi avrebbe a nunzio tal cacciati / quanti allor per le mani avesse avuto / versi giambici e bacchicatalettici" (p. 41).

In quanto alla vista però non ci sono dubbi sull'identità della vittima principaledel Rutzvanscad, cioè il Lazzarini. La fedeltà con cui il suo grecismo ortodossogli fece seguire il modello greco è palese anzitutto nell'uso che egli fece del coro, riproponendo una struttura della tragedia ormai quasi universalmente sentitacome obsoleta. Le funzioni comunemente attribuite al coro greco si riducono a due fondamentali : una strutturale, interna al testo, e l'altra ermeneutica e quindi esterna ad esso.ll All'interno del testo le attività del coro sono motivate daràgionipuramente

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gionipuramentedrammatiche, quali per esempio la presentazione dei personaggi che entrano in scena per la prima volta — poiché nel teatro greco l'attore entrante sarebbe passato vicino al coro prima di raggiungere il centro dello spazio scenico — o il dialogo con un personaggio rimasto solo sulla scena e costretto a fornire al pubblico informazioni necessarie alla corretta percezione della trama. All'esterno del testo il coro figura come uno spettatore ideale che, generalizzando l'avvenimentospecifico illustrato dalla trama, orienta lo spettatore verso la linea interpretativavoluta dall'autore. Il Rutzvanscad respinge la proposta lazzariniana di restaurare il coro stabile da tutt'e due i punti di vista. Per Valaresso e per i modernistialla ricerca di una forma drammatica più efficace, il coro stabile porta al sacrificio del verosimile e riduce notevolmente le possibilità di sviluppo della trama, mentre in qualità di ascoltatore di soliloqui informativi il coro non era più necessario, in quanto quella funzione veniva ora svolta più credibilmente dal confidente,così caro alla scena francese. Tutto insomma per rispondere al gusto dello spettatore, che all'inverosimile preferisce ciò che è razionale e credibile e che è più abituato al teatro transalpino che a quello greco.

Nella parodia il coro di orbi di piazza, degradazione plebea dei consueti cori di sacerdoti o soldati, si limita alla funzione di guida ermeneutica dello spettatore, poiché a svolgere quella dei confidenti ci sono Albozemo e Aboulcassem. In tale ruolo gli orbi suggeriscono pertanto agli spettatori il senso di sorpresa che dovrebbe accompagnare la loro percezione della catastrofe ("chi detto avrebbe,/ chi mai pensato,/ che il re assaltato / fosse nel tempio? "p. 51), e dopo l'agnizione dell'incesto — avvenuto qui non con la madre o con la figlia, rispettivamente secondo Sofocle e Lazzarini, ma con la nonna — esortano il re con caricaturale saggezza a vantarsi che dopo tutto "a suo nonno ei fé' le corna" (p. 65).

Le tragedie ad azione complessa vertono tutte sulla peripezia e sul riconoscimento, giusta la lezione di Aristotele (1452 a 11-20). La semiología dell'agnizione, che col tempo si era formalizzata in un repertorio ristretto di espedienti retorici privi della loro originale portata pratica, divenne un argomento importantissimo, anche perché all'agnizione era in gran parte affidato il successo della catarsi; e sollevò una serie di questioni nel dibattito sulla riforma, a partire dal contributo del Martello che aggiunse l'atteggiamento psicologico del personaggio ai tradizionali segni fisici, fino a quello dello Zanotti, che valorizzò solo il riconoscimento sillogistico o, come egli lo disse, "per argomentazione".l2 Contro la complessa tipologia che si era venuta creando nella corsa collettiva alla tecnica meno prevedibile, il Valaresso propone sarcasticamente un'agnizione a parole crociate:

Nutrice: Poi disse che il nome
cominciava per K, per/ finia.

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Mamaluc: 0 questa si ch'è inusitata e strana,
una ricognizion per alfabeto! (p. 62)

Si tratta di uno stato di cose sul quale il miglior commento si trova nel quasi contemporaneo Paragone di Pietro Calepio, a cui dispiacque che gli italiani, intenti a seguire l'agnizione perfetta, trascurassero gli "affetti compassionevoli che nascono tra chi nulla ignora", precludendosi quindi una intera sottospecie del genere tragico.l^

Va inoltre accostato al Paragone del Calepio, di cui, come bene osserva il Doglio,l4 il Rutzvanscad precorre alcuni capitoli, la critica che Valaresso fa dell'uso degli auguri ("i vani augurj / lascio agli autor delle tragedie greche", p. 11), degli oracoli ("cert'è che non sentendo qui l'oracolo,/ mi viene un buon augurio / che non possa tal caso andar in scena", p. 11), e dei sogni ("Oimè, mi spiace:/ qui se non v'è l'oracolo, v'è il sogno", p. 12). Nel testo in quanto sistema significante, questi elementi hanno tutti la medesima funzione: fissare le condizioni logiche necessarie al futuro compimento della catastrofe, prospettandone sin dall'inizio la possibilità per poi profilarla sempre più grave ed incombente lungo l'intero corso della trama fino alla sua realizzazione completa, quando l'economia del testo lascia scorgere tutta la sua compatibilita interna e pienamente giustifica la distribuzione sintattica delle sue parti costitutive. Nel testo in quanto realtà significata da tale configurazione di forme, la mantica per oracoli, indovini e sogni premonitori rappresenta l'istituzionalizzazione del principio classico del fatalismo cosmico, principio che investe la storia di senso strutturale mentre trasforma la vita quotidiana in ordine complesso di indizi divinatori in attesa di decifrazione: la tragedia, in effetti, non è che una verifica dell'esistenza del codice del fato ed una sua interpretazione da parte dei personaggi. La correlazione fra universo artistico e cosmo è chiara ed incontestabile: significante, significato e realtà sono legati da una rete di rapporti biunivoci per cui la realtà spirituale ed istituzionale dello spettatore trova una naturale espressione artistica nel testo.

Ma nel mondo moderno il razionalismo ed il cristianesmo negano all'arte divinatoria la sua antica validità ermeneutica, avendo già disfatto tutte le istituzionisociali fondate sulla sua pratica. Quando la storia si libera dalla morsa del fato per illuminarsi della luce della ragione e delia fede, le tecniche ed i sacerdoti del vaticinio non hanno più ragion d'essere al di fuori della reità artificiale di un testo, la quale a sua volta può accoglierli solo rinunciando alla possibilità di rappresentareil mondo degli spettatori. Tuttavia il classicismo, in nome di un ideale di forma di cui la divinazione è parte integrante, compie volentieri questo sacrificio,e di conseguenza trasforma l'antico codice teatrale in cerimoniale disperatamenteincapace di comunicazione. La sua funzionalità si esaurisce nella sintassi.

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Auguri, oracoli, sogni ed indovini si riducono a significanti sincategorematici,
privi cioè di valore semantico e pragmatico indipendente, e utili solo a fissare
relazioni formali all'interno del testo.

La contestazione dell'apparato strutturale della tragedia non poteva poi non toccare uno dei punti più dibattuti dai teorici del periodo: le tre unità. Prevedibilmente Valaresso rifiuta in partenza l'unità di tempo (p. 6) in nome dello svolgimento verosimile dell'azione, ma il suo atteggiamento antidogmatico è più palese nel suo rifiuto dell'unità d'azione ("Per certo ha da cascar il mondo / se mai fìa che si veda / comprendere due fatti una tragedia",p. 51), che non era stata respinta nemmeno da un modernista come il Martello.ls Tuttavia il Rutzvanscad non suggerisce alcuna riflessione teorica sulla regola delle unità, limitandosi semplicemente ad affermare la possibilità di un orientamento contrario.

Più profìcuo è invece considerare il personaggio di Culicutidonia. Vera figura donchisciottesca e simbolo di quel classicismo di maniera che, secondo Valaresso minacciava di avvilire irrevocabilmente la ricerca di forme estetiche coessenziali con la civiltà moderna, Culicutidonia si è talmente nutrita di tragedie greche e grecheggianti che ha perso ogni traccia di autonoma personalità, avendo del tutto assimilato il suo essere a quello di antiche protagoniste tragiche: lettrice ammaliata dalla grande poesia classica, Culicutidonia ha negato a se stessa la vita per far vivere in sé i suoi personaggi preferiti. Pertanto i giorni che compongono la sua esistenza sono solo le pagine di un centone rapsodico su cui sono stati pedissequamente ricalcati celebri motivi di Sofocle, di Euripide e dei loro epigoni moderni. E nella presunta sicurezza estetica dei modelli ammirati, si libera della responsabilità di comprendere il presente e di orientarsi verso il futuro, professando un'arte poetica che esime le forme dal dovere di evolvere con la storia. In questa prospettiva il Classicismo non è che la capitolazione dell'arte di fronte al futuro.

L'opera moderna che aveva più ampiamente diffuso e variamente diluito la tematica tragica connaturale a Culicutidonia era la Merope del Maffei.l6 Ad essa Culicutidonia si rivolge in tutti i momenti di crisi come ad un fido manuale di estetica teatrale e di vita. Pertanto ne tiene una copia vicino al capezzale ("Paggio,/vanne nelle stanze mie, prendi quel libro / sul tavolin al letto mio vicino: / qui lo porta. E la Merope italiana", p. 74) per potersi meglio governare nelle sue attività quotidiane in conformità con il suo autorevole esempio. Sul piano della trama la vediamo infatti incitare i giovani Muezim e Calaf ad affrontare nel tempio il tiranno Rutzvanscad — uccisore del loro padre ed usurpatùre del loro trono — pur sapendo di mandarli incontro a morte sicura. In contrasto, Aboulcassem, che nella riflessione estetica della parodia rappresenta il presidio dell'intelligenza critica di fronte all'ansia di emulare i grandi del passato imitandoli nella lettera

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piuttosto che nello spirito, ha il compito di denunciare quelle poetiche che premianola sottomissione dell'arte ad un ideale precostituito. Egli riconosce subito la matrice di Culicutidonia e ne indica l'artificiosità nel contesto del mondo moderno:

Se non avesse letto
che di Merope il figlio
uccise Polifonte in mezzo al tempio,
egli andô bene, non so corne, il fatto,
non le sarebbe mai venuto in mente
di destinai voi miseri fanciulli
vittime sfortunate al sagrificio. (p. 27)

Sul piano della forma dialogica Culicutidonia aderisce anche a quella che per Valaresso è una delle pecche più gravi dello stile maffeiano, e cioè la tendenza alla prolissità nelle battute informative, per cui la drammaticità di una situazione tragica non si manifesta sulla scena mediante quei soli segni fisici e verbali necessari alla sua espressione teatrale, ma si risolve in narratività, in gusto retorico del racconto. E questo è giustamente sentito dal parodista come del tutto estraneo alla natura della comunicazione teatrale, poiché il prodotto finale non figura come l'entelechia del potenziale drammatico di un determinato episodio ma come lo sviluppo della sua latente disposizione narrativa. Alla forte propensione diegetica di tale tipo di tragedia, Aboulcassem, che anche in questo particolare è difensore sicuro dell'estetica valaressiana, contrappone concisione espositiva, convinto come è che sulla scena la parola non possa diventare segno gratuito, privo di valore funzionale nella sintassi dell'azione e latore solo della propria intrinseca grazia letteraria. La parola è solo un veicolo linguistico del discorso teatrale, e come tale è un concetto drammatico piuttosto che retorico. Ma Culicutidonia risponde con severità a questa proposta:

E voi con un racconto, in cui ben chiaro
fate veder che brevità studiate,
par che di due plebei narriate i casi (p. 40)

Forte del principio che il discorso tragico, in quanto discorso anche e sopratutto verbale, non può sfuggire al dominio della retorica, la quale anzi io affida alio stile grave e magniloquente par garantirne meglio la dignità estetica, Culicutidonia asserisceche la brevitas auspicata da Aboulcassem causerebbe inevitabilmente la degenerazione dell'alta poesia tragica in espressione umile e quindi inadeguata alla sublimità del suo compito nel processo della significazione. Né vale che Aboulcassem difenda il dialogo rapido da una prospettiva pragmatica, dichiarando che la prolissità annoia gli spettatori (p. 75), perché Culicutidonia cita l'esempio convalidante del celebre lamento della protagonista nella Merope (111, 6), generatoda

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ratodaun principio di composizione diametricalmente opposto a quello della
brevitas retorica, un principio del tutto indifferente al valore pragmatico dei
segni ma molto sensibile alla loro ascendenza letteraria:

Vedrete là s'io mento, e se con forza
piagnean i figli lor le madri greche.
Per accrescere oggetti al suo dolore
vedrete richiamare alla memoria
sin del figlio i puerili giochi
ch'esser doveano il trottolo ed il pandolo. (p. 75)

L'inferenza più significativa qui è che il teatro di imitazione si risolve sempre in
celebrazione memoriale del modello ed in proclamazione dell'ideale estetico ad
esso soggiacente.

Si trattava comunque di madri greche o di fanciulle settecentesche, sentimentali ed arcadiche, che di greco avevano solo l'ascendenza storica? Nel frontespizio dell'opera il Valaresso indica che la sua parodia è diretta solo ai "grecheggianti compositori" del suo tempo,i quali, come si legge nella dedica "All'amico lettore", sono quei drammaturghi che si sforzano di "avezzare" il teatro alla "totale e servile imitazione de' greci" (p. 3). Ma questa espressione di intenzionalità non descrive completamente il contenuto polemico dell'opera: in primo luogo perché, come abbiamo visto, la critica del Valaresso colpisce con vigore anche il Maffei — che certo non fu propugnatore di grecismo ortodosso — e forse anche il Martello, se non è azzardato scorgere nei versi "mi die sue commissioni in voce:/ perché nelle tragedie all'uso antico / par non vi sia di lettere il costume" (p. 61) una sferzata all'agnizione deWlfigenia in Tauris (V, 3); in secondo luogo perché nella sua considerazione della tematica tragica, l'autore inveisce sia contro le imitazioni che contro il modello: "sembrano pazzi Edippo e il nuovo Ulisse" (p. 69). In altre parole, la promessa iniziale di parodiare solo l'imitazione pedissequa dei drammaturghi greci si trasforma facilmente in insoffrenza di qualsiasi ricordo del repertorio greco - da quelli severi e puri del Lazzarini a quelli tenui e sentimentali del classicismo arcadico - ed in netto rifiuto del teatro greco come modello di cultura. Rispecchiando il dominante atteggiamento mentale della sua epoca, la quale cartesianamente ritiene valida espressione di pensiero solo ciò che è riducibile a sistema di inferenze logiche e di nozioni chiare e distinte della realtà, Valaresso accusa di irrazionalità la concezione dei tipi sociali e della vita spirituale inerenti a tutta la tragedia classica.

Per fare meglio vedere questa assurdità di pensiero, Valaresso ambienta la sua parodia in una terra fantastica con la quale lo spettatore non può avere alcun contatto: la "consonantissima cittade" (p. 38) di Tnfznprhzmk nella Nuova Zembla. Per spirito di contrasto, il Mintidaspe si svolge in una città ugualmente

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impronunciabile ma formata quasi interamente di fonemi vocalici, Treuieieieauoelefchemcapitale del "Mississipì ". La geografia favolosa, ha osservato il Brognoligo,l7 vuole simboleggiare in termini spaziali la distanza storica che separavail teatro antico dal gusto moderno, ma va aggiunto che la prospettiva rende possibile l'alto grado di astrazione dell'oggetto estetico esaminato, che è una condizionea priori della parodia in genere. Con questo disegno il Valaresso fa vedere al microscopio i difetti del modello parodiato deformandone i principali elementi costitutivi: Culicutidonia muore in una latrina (p. 77), il linguaggio ambiguo degli oracoli è totalmente privo di senso (p. 14), la catastrofe colpisce tutti i personaggi (p. 79), gli dei - ai quali si sacrifica un ippopotamo (p. 24) - sono stanchi di ascoltare le preghiere dei mortali (p. 26), e a Cinzia invece di un tempio è consacrataun'osteria (p. 15). Il Boccardo a sua volta si serve della medesima tecnica per ripiegare su se stessi i colpi vibiaii dal Vaiaresso. Pertanto nei Minzidaspe Cirimilindanon può invocare gli dei perché tali suppliche sono ora fuori moda (p. 43), la moglie di Mintidaspe non viene uccisa per non "funestar questo teatro / di sanguinosi scempi" (p. 24), e gli oracoli sono tutti bugiardi (p. 46).

La prospettiva della distanza spaziale concede l'efficace sdoppiamento dei protagonisti della favola parodistica in personaggi e spettatori. In quanto personaggi essi fanno parte del gioco scenico e partecipano alla sequenza di eventi che ha luogo nella impronunciabile città della Nuova Zembla. In quanto spettatori fanno parte del gioco critico e, osservandosi in quello scenico, si scoprono imprigionati in un'assurda estetica teatrale. La "consonantissima cittade" e simultaneamente un luogo e un teatro (o un libro). L'astrologa, per esempio, può chiedere al re di risparmiare la vita al giovane Muezim senza rivelare le ragioni per la propria richiesta perché altrimenti perdono "il piacer gli spettatori / e quanto è da veder più non si vede" (p. 48). L'effetto complessivo è quello di personaggi che escono momentaneamente fuori scena per proporre direttamente un'alternativa al modello parodiato. Perché questo procedimento possa funzionare è necessario che l'autore ed il pubblico siano d'accordo nel rifiutare il concetto deriso.lB E così pareva al Valaresso che stessero infatti le cose, che cioè gli spettatori, stanchi della mediocrità del classicismo italiano, guardassero al teatro transalpino con invidia.

Ma la risposta del Boccardo mostra che il modernismo proclamato dal Valaressonon era universale. I modernisti sono per lui "certi cocodrilli,/ che von farla da Vergilli" (p. 47), e li ridicolizza severamente con un'immagine che ricorda YApocolochintosi di Seneca: "Riformati d'Elicona / ben lor siede per corona / le cocozze e non li allor" (p. 48). E col Boccardo ci saranno stati senza dubbio il Lazzarini, il Salio e tutti gli altri "grecheggianti compositori" che vagheggiavano la perfetta tragedia del passato. Ma nei nuovi tempi il gusto degli spettatori era

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più importante della precettistica classica. L'insipido tentativo di difesa del Mintidaspe("più non sete alla moda, e nauseate / al buon gusto moderno e riformato",p. 19) andava preso alla lettera e non ironicamente come voleva l'autore. La nuova scuola era l'Arcadia ed essa apriva volentieri le porte agli influssi francesi, ed accettava di rivivere il passato solo a patto di poterlo attualizzare nel presente. Ciò non era sfuggito al Boccardo:

È' pur questo un bel paese dove regna la galanteria, basta ci entri la bizzarria di quel spirito francese, (p. 33)

Nel Mississipì dominava ironicamente il gusto moderno francesizzante, mentre nella Nuova Zembla regnava sovrano il gusto antico grecheggiante, tanto che Culicutidonia fece della vita un'imitazione della letteratura (come aveva fatto Don Chisciotte) e non viceversa (come aveva insegnato Aristotele e tutta la tradizione critica occidentale). Prima di morire, Culicutidonia lasciò in eredità le tragedie di Sofocle e di Euripide ad Aboulcassem, ma anche lui morì, e così, nella fantasia del Valaresso, l'ormai flebile voce del classicismo tragico si perdeva nel silenzio, mentre la nuova poesia drammatica affrontava fiduciosamente l'incertezza formale del proprio avvenire.

È importante comunque notare che il Rutzvanscad non èun testo esclusivamente negativo, al pari — per esempio - di un manifesto futurista. In quanto si propongonodi modificare l'autocomprensione di un genere letterario ripetendone con esagerazione caricaturale i suoi modi espressivi principali, le parodie consistono sempre di una parte distruttiva e di una parte costruttiva. E lungi dal porsi fuori della grande tradizione culturale per contestarne il diritto all'esistenza, operano all'interno di essa e fungono da sua coscienza critica rispetto ad eccessi che, nel tentativo di impedire lo slittamento dell'arte nel disordine, rischiano invece di imprigionarla nel vuoto formalismo. Il contrasto fra il Rutzvanscad ed il classicismosi risolve, in ultima analisi, in una vertenza fra un'operazione culturale di ipercodifica, mirante cioè alla codificazione totale e chiusa di tutta la cultura — con la conseguenza di ridurre l'originalità artistica a manierismo combinatorio all'interno di limiti inflessibili - ed un programma di ipocodifica, nella persuasioneche la corsa alla codificazione assoluta sia il segno di una cultura in rapida fase di obsolescenza e destinata a morire perché incapace di evolvere coi tempi.l9 Ad un livello più alto di generalità il dibattito fra il modernismo ed il classicismo sulla riforma della tragedia figura come un'espressione specifica — ristretta cioè ad un solo genere artistico ed inscritta in un breve periodo di tempo — di quel fenomeno generale che è la tensione derivante da ciò che Juri Lotman definì

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culture grammaticalizzate, basate sulla riduzione di tutto a regole generatrici esatte da applicare a poche unità discrete di base nella produzione di oggetti culturali nuovi, e culture testualizzate, in cui ci si propone di emulare quei singoli testi che meglio rispondono all'autocomprensione di un popolo nel suo attuale orientamentoculturale, seguendo il principio che le regole dell'arte perfetta non sono (o non sono ancora) codificatoli.2o Nella fattispecie del teatro tragico, la grammaticalizzazioneporta alla conclusione che il sucesso sulla scena presuppone un pubblico con una preparazione accademica non indifferente, chiamato a compiere un atto di verifica rispetto al codice generatore dell'arte. Valaresso reagisce non solo all'esplicito elitismo intellettuale che questa prospettiva comporta, ma anche all'implicita riduzione dello spettatore ad essere astratto, privo di gusto e divorziatodal grande contesto culturale in cui vive. La testualizzazione invece riconoscealla tragedia la capacità intrinseca di evolvere in perfetta correlazione con lo sviluppo della società, e quindi dello spettatore, la cui cangiante sensibilità nella storia è da essa stimolata e rispecchiata. Valaresso ed i modernisti di tutti i tempi s'impegnano per il progresso di una cultura testualizzata, una cultura sempre capacedi distaccarsi dal proprio nobile passato per rivendicare il proprio diritto alla vita nel presente, e sempre alla ricerca di una forma che le possa permettere un'autoespressione più felice.

Domenico Pietropaolo

Toronto

Análisis comparativo de un soneto de Quevedo* Riassunto

Nel dibattito settecentesco sulla riforma della tragedia, Valaresso rappresenta la prospettiva modernista più spregiudicata nei rispetti del classicismo grecheggiante. Il suo presupposto di fondo è che il discorso teatrale deve nascere, non dalla tradizione letteraria, ma dallo sforzo di comunicare con lo spettatore moderno, la cui sensibilità culturale deve necessariamente orientare la teoria dell'arte drammatica. Da questa angolazione Valaresso parodizza l'apparato formale della tragedia grecheggiante, facendo vedere come la riflessione classicistica sulla tragedia si esaurisca nella considerazione sintattica di un codice obsoleto di segni, ormai troppo povero di contenuto semantico e del tutto privo di valore pragmatico.



Note

1. Rutzvanscad il giovane, arcisopratragichissima tragedia elaborata ad uso del buon gusto de'grecheggianti compositori daCatuffio Panchianio Bubulco Arcade, Venezia 1724. Durante lo stesso anno l'opera fu pubblicata anche a Bologna. Nella Biographie universelle (Paris 1827, vol. 47, p. 269) e citata un'edizione parigina del 1736, Observations sur la comédie, contenente anche YUlisse il giovane. Francesco Saverio Quadrio menziona un'edizione milanese del 1737 e aggiunge che fu ristampata "in altri luoghi molte altre volte" (Della stona e della ragione d'ogni poesia, Milano 1743, voi. Ili, p. 99). Vi fu poi un'edizione Bettinelli a Venezia nel 1743 nel Nuovo teatro italiano e quindi una ristampa a cura di Andrea Rubbi nel Parnaso italiano, tomo L, Teatrali serj e giocosi del secolo XVIII, Milano 1825. L'edizione più recente è quella curata da G. Brognoligo nel volume Parodie tragiche del Settecento, Lanciano 1922. Tutte le indicazioni testuali in questo articolo si riferiscono alla prima edizione veneziana.

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2. Federico Doro, Bibliografìa maffeiana, Torino 1909, p. 71.

3. Anche questa è un'opera pseudónima: Mintidaspe il vecchio arcipiuchesopraridicolissima tragicommedia di Merlino Beccatutto accademico incolto e poeta grecheggiante giurato in risposta alla moderna tragedia di Catuffio Panchianio autore di buon gusto, Venezia 1724.

4. Venezia 1739. Per il dibattito sulla lingua si veda Maurizio Vitale, La questione della lingua, Palermo 1967, pp. 94-126.

5. P. J. Martello, Del verso tragico, in Scritti critici e satirici, a cura di H. S. Noce, Bari 1963, p. 178; G. V. Gravina, Tragedie cingue, Napoli 1712, prologo (pagine e versi non numerati).

6. P. Calepio, // paragone della poesia tragica d'ltalia con quella di Francia, Padova 1765, p. 124.

7. Ora in Domenico Lazzarini, Teatro, a cura di N. F. Cimmino, Roma 1960, p. 6.

8. Citata in Emilio Bertana, "II teatro tragico italiano del secolo XVIII prima dell'Alfieri", Giornale storico della letteratura italiana, suppl. IV (1901), p. 49.

9. Rutzvanscad,p. 3.

10. Calepio, p. 128.

11. Cfr. P. W. Harsh,/4 Handbook ofClassical Drama, Stanford 1970, pp. 17-22.

12. P. J. Martello, Della tragedia antica e moderna, in Scritti critici e satirici cit., pp. 206-207; M. Zanotti, Dell'arte poetica, Bologna 1768, p. 72.

13. Calepio, p. 29.

14. F. Doglio, Storia del teatro tragico italiano, in Teatro tragico italiano, Bologna 1960, p. cxxv.

15. Martello, Della tragedia cit., p. 210.

16. Sulla polemica suscitata dalla Merope maffeiana, cfr. V. Placella, "La polemica settecentesca della Merope", in Filologia e letteratura XIII (1967), iv, pp. 394-398.

17. op. cit., p. vii.

18. Northrop Frye, Anatomy ofCriticism, Atheneum 1969, p. 224.

19. Per i concetti di ipercodifica ed ipocodifica si veda Umberto Eco, Trattato di semiotica generale, Milano 1975, pp. 188-192.

20. Per una chiara esposizione dei concetti di Lotman si veda Eco, pp. 194-195.