Revue Romane, Bind 20 (1985) 1

Corinne Lucas: De l'horreur au "lieto fine". Le contrôle du discours tragique dans le théâtre de Giraldi Cinzio. Bonacci editore, Roma 1984.

Daniela Quarta

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Per chi volesse avere un'idea precisa e puntuale della situazione culturale in cui operava Giovan Battista Giraldi Cinzio (1504-1573) tragediografo alla corte degli Estensi in Ferrara, il libro della Lucas costituirebbe senz'altro una guida utilissima nel districarsi tra le varie sollecitazioni e con un'esauriente funzione ordinatrice dei vari materiali; c'è una netta priorità degli elementi storico-politico-culturali posti in un'ottica divulgativa e nello stesso tempo di puntualizzazione critica, che se pure non pervasi di eccessiva originalità, ben ottemperano alla necessità di poter fornire un affresco il più completo possibile della corte ferrarese dell'epoca e della posizione del Giraldi Cinzio al suo interno. Un lavoro meritevole ed esauriente, fornito di un'ampia e completa bibliografia, un ennesimo lodevole tentativo di affrontare uno degli spinosi problemi posti dal genere "tragedia" nella letteratura italiana. In particolare la tragedia nella letteratura tardo-cinquecentesca italiana - e tralascio qui i grossi problemi di periodizzazione relativi al passaggio dal Rinascimento al Manierismo in letteratura di cui la tragedia costituisce l'esempio più evidente, problema per altro nemmeno

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citato dalla Lucas - costringe lo studioso ad un gioco continuo di equilibrismi tra una massiccia produzione trattatistica (che unisce aspetti filosofici e ideologici a proposte di teorie più specificatamente letterarie) ed un'altrettanto massiccia produzione di testi, di tragedie, che se in linea programmatica si rifanno alle teorie dei trattati, nella pratica sono spesso un'ordinata sequela di trasgressioni ai principi enunciati.

Questa frattura tra teoria e prassi pone una serie di problemi metodologici non facilmente
risolvibili senza un procedimento di selezione del materiale ed una scelta rigorosa
di approccio che limiti i temi da affrontare.

Si ha l'impressione che talvolta la Lucas sia sopraffatta dalla tentazione di chiarire i minimi dettagli riguardanti la situazione socio-culturale della Corte degli Estensi al punto di perdere un po' di vista sia gli aspetti più generali della grande ricerca teorica sul concetto di tragico che proprio dal Giraldi parte verso risultati originali e carichi di consequenze, sia il dibattito intellettuale italiano sull'argomento.

Ecco, si ha un'impressione di claustrofobia, anche se in taluni punti del saggio e nell'argomentazione interna ad esso, tale scelta si rivela molte volte vincente: se si perde (o se vi si accenna solo a grandi linee) qualcosa nella compiutezza, si guadagna in chiarezza rispetto al travaglio compositivo e ideologico del Giraldi. Le poche eccezioni a questa regola di focalizzazione locale e situazionale seguita dalla Lucas, si trovano nel primo paragrafo del primo capitolo della parte terza in cui, per evidenziare le scelte diverse del Giraldi sull'integrazione tra morale e politica nel tragico, si propone una rapida analisi di due tragedie del Rucellai e del Trissino, immediati predecessori del Giraldi, e negli accenni e confronti con un'altra tragedia/manifesto dei periodo, la Canace di Sperone Speroni, di un anno successiva alla Orbecche.

A questa scelta metodologica di fondo, la Lucas sovrappone una rigida divisione del
saggio in tre parti:

a) la prima, // discorso tragico giraldiano ele sue procedure di controllo, divisa in
due paragrafi: 1) il commentario e 2) Giraldi e le categorie aristoteliche;

b) la seconda, Giraldi alle prese con il caos, anch'essa scissa in due paragrafi: 1) la
confusione tra l'essere e il sembrare: Orbecche (1541) e 2) razionalizzazione del
rapporto essere/sembrare;

e) la terza, Alla ricerca della felicità civile, divisa in: 1) rifiuto di opporre la morale
alla politica nelle prime tragedie del Giraldi e 2) il potere, maschera della virtù
nelle ultime tragedie.

Già da questa impostazione è possibile vedere come la prima parte si distacchi metodologicamente dalle altre due: centrata sull'elaborazione formale e interpretativa della Poetica aristotelica applicata alla tragedia per poi passare nella seconda e terza parte ad un'analisi delle tematiche giraldiane, inserite e spesso un po' meccanicamente derivanti (secondo la Lucas) dagli eventi storico-politici che travagliano la Ferrara dell'epoca.

Una metodologia fondamentalmente storica per le due ultime sezioni, una filosoficoletteraria
per la prima.

E' la prima parte, indubbiamente, a costituire una novità di approccio, mentre la seconda
non presenta momenti di grande originalità: puntualità, precisione nell'impostazione,
estrema accuratezza critica, ma le conclusioni non sono particolarmente stimolanti.

Dispiace che la Lucas si sia impaurita quasi delle conseguenze poste dalle sue scelte
per la prima parte: quello smembramento, quella scissione degli elementi strutturali del

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tragico, l'idea originalissima di vedere l'effetto della trattastica sui singoli elementi strutturali
della tragedia, andava, secondo me, perseguita dal principio alla fine, integrando lì, all'internodello
smembramento tutti gli elementi storico-culturali.

Meglio ne sarebbe emersa l'ambiguità, la duplicità, la tensione teorica e di ricerca del
Giraldi, le contraddizioni interne e il lavorio sperimentale che era "il far tragedia" nel
tardo-rinascimento, sia dal punto di vista formale che da quello tematico.

Un altro appunto da fare è l'ottica eccessivamente aristocratica che la Lucas rileva, quasi con disappunto e con molti esempi, nella composizione di tragedie; certo, essa esiste, certamente anche la catarsi tragica è un sistema per riportare ordine, per ribadire un sistema sociale esistente rigido e gerarchico. Identificarsi però totalmente con questo assunto è eccessivo, tanto più che ben rivela altrove tutte le ambiguità e doppiezze di questa posizione sostanzialmente teorica; molto avrebbe aiuto, anche per approfondire l'altrimenti inspiegabile teorizzazione del "lieto fine", tenere un po' più d'occhio le reazioni documentate del pubblico contemporaneo alle rappresentazioni tragiche.

In questa ottica il "lieto fine" è sì una sorta di catarsi "cattolica" ove la Provvidenza agisce in senso consolatorio e rassicurante (vedi paragrafo sulla catarsi), ma esso risponde a precise aspettative da parte del pubblico, ad un desiderio di evasione e, quindi anche di trasgressione, del pubblico cortigiano cinquecentesco; quindi non solo imposizioni ottimistiche dei potenti per meglio dominare i soggetti, ma anche reale bisogno dei sudditi: o almeno un compenetrarsi di interessi che porta dal gratuito orrore iniziale (ben evidenziato dalla Lucas) tanto lontano dalla catarsi aristotelica, ad un "lieto fine" altrettanto lontano e ingiustificato, nonostante i funambolismi teorici, dalle categorie aristoteliche.

E proprio questo costruire teorie precisissime per poi trasgredirle, doveva permettere alla Lucas una lettura molto più spregiudicata delle opere del Giraldi: insomma non doveva poi prenderlo così sul serio, sfruttando - cosa da lei perseguita solo nel primo capitolo - proprio le contraddizioni, per tentare di definire meglio i testi nella loro polivalenza semantica, stabilita proprio dal loro essere fucine di linguaggi e tematiche nuove.

Comunque, dal punto di vista dell'interpretazione documentaria e dei testi, per la sua chiarezza di impostazione il libro della Lucas costituisce senz'altro un buon punto di partenza per i futuri studiosi dell'ancora poco esplorato mondo della tragedia tardo-cinquecentesca in Italia.

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