Revue Romane, Bind 19 (1984) 2Jorgen Schmitt JensenJørgen Schmitt Jensen Side 307
La tesi di Gunver Skytte è un grande libro, elaborato molto coscienziosamente, pieno di informazioni, basato su un ricchissimo materiale che consiste di una raccolta di esempi tolti da testi di prosa contemporanea (15.000 pagine). L'argomento — la sintassi dell'infinito in italiano moderno - è molto importante. Bisogna dire che ormai sarà più facile esprimersi correttamente in italiano in questo campo, praticamente trascurato nel suo insieme dai grammatici. E bisogna anche dire che la sintassi dell'infinito è un tema in molti sensi più vasto e più complicato di tanti altri nell'ambito della sintassi del verbo come per esempio la sintassi temporale o modale. Con un grande impegno e un grande lavoro Gunver Skytte si è messa, si è lanciata in questo enorme soggetto dell'infinito - ove, veramente, per poco il cor non si spaura. Questo libro si è aspettato con molto interesse e molte speranze. Purtroppo devo ammettere che sono poco d'accordo sul suo fondamento teorico - sia nella teoria generale, sia nella sua applicazione dettagliata. Cercherò qui di sottolineare solo alcuni punti caratteristici che ho specialmente rilevato durante la mia discussione con GS quando essa, all'Università di Copenaghen, ha sostenuto la sua thèse {de doctorat d'Etat). Nel maneggiare l'infinito italiano, una delle grandi difficoltà per gli stranieri — siano questi di un'altra lingua romanza o stranieri veri e propri, linguisticamente, come noi danesi - è la scelta della preposizione che introduce (delle volte) l'infinito nelle varie situazioni sintattiche. Ciò specialmente nei casi in cui l'infinito viene, nella tradizione danese, identificato alla funzione di "segno dell'infinito". In questi casi si parla di un introduttore dell'infinito (la preposizione in questa funzione). Questo segno dell'infinito potrebbe - indipendentemente dall'analisi dettagliata di questo fenomeno sintattico - essere paragonato alle particole to/zu/at (in inglese, tedesco, danese), e bisogna conoscere le regole del loro uso per poter dominare in pratica la sintassi dell'infinito. E' importante sapere che là dove, p. es., si ha un oggetto diretto (senza preposizione), se si tratta di un sostantivo, l'infinito nella stessa funzione sintattica viene introdotto da un "segno dell'infinito" ("infinitivmaerke" in danese): aspetto il suo arrivo/aspetto di vederlo arrivare/ Impara una nuova lingua/impara a leggere/Vorrei un bicchier di vino/vorrei partire adesso. Nell'ultimo esempio si può dire che non c'è introduttore, o che l'introduttore è zero (0). Comunque è evidente che bisogna sapere come l'oggetto diretto dei tre verbi si realizza, se invece di un sostantivo ha la forma di un infinito: con la preposizione — in funzione di "segno dell'infinito - di/a" oppure senza preposizione (0). Io penso che è
necessario mantenere questo concetto di "segno
dell'infinito" nella Side 308
possono dare queste informazioni necessarie in altro modo. Dunque mi felicito che GS continui questa tradizione, — ma forse non tanto di verderla esagerarla — al mio modo di vedere - fino all'estremo. Ma, prima di passare oltre nel campo di questo uso specifico delle preposizioni, vediamo alcuni punti della sua Introduzione (Capitolo I). Concordo naturalmente in molto di quello che GS dichiara quando — molto gentilmente — mi cita, però si impongono alcune precisazioni. Quando GS, p. es., a proposito della distinzione tra fattori semantici e fattori sintattici cita il concetto di "compatibilita delle radici" come esempio di fattori semantici che spiegherebbero fattori sintattici (p. 16), bisogna aggiungere che questi potrebbero altrettanto essere considerati come fattori sintattici. Il fatto che un verbo come p. es. pensare normalmente richieda un soggetto animato è tanto formalmente/sintatticamente registrabile come una reggenza di dativo —p. es. dopo nuocere. Naturalmente animato è un termine semantico e pratico (potrebbe anche chiamarsi 47), come lo è, del resto, (per molti), anche il termine dativo (che potrebbe ugualmente essere chiamato p. es. "caso III"). Ma in se questi "fattori" della compatibilita delle radici non sono "fattori semantici". A proposito del costrutto infinitivo corrispondente a una proposizione relativa (p. 28), tipo: una lettera da scrivere, il fatto che questo sia sostituibile con una proposizione relativa è, per me, un fatto secondario, non necessario, e ad ogni modo non pertinente all'analisi: in questa il che della relativa giustamente non rappresenta l'oggetto (p. es. in la lettera che scrive) appunto come la preposizione da non rappresenta l'oggetto di scrivere in una lettera da scrivere*. Come che (congiunzione) subordina una proposizione a un sostantivo, e così crea una situazione relativa, cioè "costruzione a membro comune" (corrispondente alla costruzione inglese thè letter he writes, - così da (preposizione) subordina una forma sostantiva ugualmente contenente una verbalità come l'infinito a un altro sostantivo con lo stesso risultato (un po' corrispondente al tipo inglese a letter to write). GS può naturalmente - fino ad un certo punto - scegliere l'analisi che vuole, ma non è, precisamente, questa, la mia. - Tuttavia, GS ha il merito di aver reso conto della distribuzione di a/da in questi costrutti. Nella discussione sistematica — sempre nell'introduzione — délia posizione dell'infînito nelle forme del verbo non-finito, GS differenzia queste ultime tra di loro per il loro rapporto coll'aspetto, designando il gerundio corne imperfettivo, l'infinito como neutro e il participio passato corne perfcîtivo (p. 23). Quesîo, nataralrnenîe non c vcru. In Mangiaio il polio, si è beati (cit. p. 23) mangiaîo è perfettivo, di fatto, ma c perché mangiare è un verbo perfettivo (nel contesto supposto). Il participio passato, perô, è imperfettivo, se il verbo lo è: amato, guardaîo ecc. - (a meno che il verbo si usi in un senso perfettivo, cio che risulta molto "materiale" nel caso di amare, molto spéciale nel caso di guardare ("controllare" p. es.). Questa costatazione ha anche conseguenze per la sorprendente abolizione del concetto di costrutto assoluto (p. 26-27). E lo ha specialmente per tutte le volte che si parla dell'opposizione aspettuale tra il paiticipio passato e rinfinito, corne p. es. p. 320. Questi, e molti altri, dettagli sono di una importanza minore. Metodicamente c'è più bisogno di sottolineare l'atto di fede — o piuttosto: la Rinuncia solennemente dichiarata — a p. 17: ... "non posso condividere la "fede" dei generativisti nella cosiddetta "struttura profonda"" (p. 17). Io non posso criticare GS per questa rinuncia alla grammatica TG. Affatto! Ma mi posso sorprendere, dopo questa presa di riserva, di vederla venire a galla * Cf. la discussione in Revue Romane Vili (1973), p. 122-132. Side 309
parecchie volte nel libro - specialmente quando risolve (magicamente) qualche difficoltà. P. es., a p. 32 a proposito della pretesa "funzione avverbiale, con significato consecutivo" dell'infinito(in realtà si tratta del sintagma preposizionale da + infinito), dove, in una nota, si legge: "La funzione avverbiale può dirsi generata dalla funzione aggettivale". Il termine "generato" in questo contesto deve presupporre un'analisi di tipo TG-generativo. Questo, comunque, pare del tutto evidente altrove nello studio, specialmente a proposito dell'analisi — molto problematica — del tipo lei pare non accorrersene (p. 320), dove si legge, dopo l'esposizione della generazione (sic!) del costrutto (-? parere verbo personale nella struttura superficiale). Chi dice struttura superficiale dice, naturalmente, eo ipso anche struttura profonda.La mia critica qui non riguarda questa analisi, solo l'incoerenza tra la dichiarazione di Fede (o di Rinuncia) citata e l'applicazione di analisi tipo TG — quando fa comodo! Ho lasciato trapelare il mio scetticismo in quanto a molte analisi di GS in genere e in quanto alla consistenza del suo modo di affrontare molti problemi sintattici in particolare. Non è possibile in questa sede elencare tutti i dettagli che alimentano questo scetticismo - anche se, metodologicamente, la distanza che ci separa dovrebbe essere minima. Mi limiterò qui ad un paio di esempi che mi sembrano di grande portata e in certo modo sintetizzano questo genere suo di analisi, a mio modo di vedere errato. Torniamo all'lntroduzione (cap. I). Sotto il punto 5: Definizione dell'infinito, p. 23, GS, dopo una lunga e competente discussione, passando per la determinazione della posizione dell'infinito nelle forme non-finite del verbo, arriva alla dichiarazione: "L'infinito (invar.) o il sintagma infinitivo ha una funzione più estesa" (se. del gerundio e, specialmente, del participio (var.)) "che denominerò nominale". E GS continua specificando che adopera il termine nominale nel senso (latino): nomen substantivurn/nomen adjectivum: "Per funzione nominale intendo una funzione sintattica che corrisponde a quello che ha un nome nel senso più lato (sostantivo e aggettivo)". Anteriormente (p. 21-22) si è esplicitato che la concezione di altri grammatici danesi (Togeby, Skydsgaard), secondo i quali l'infinito è un "verbo sostantivo" (o ha, nello stesso senso, "une fonction nominale"), riguarda termini che indicano "una funzione troppo limitata per poter comprendere e descrivere tutte le possibilità sintattiche dell'infinito". Non sono d'accordo! Le forme non-finite del verbo italiano (come delle altre lingue romanze, con alcune variazioni) sono giustamente forme che "partecipano" e nelle funzioni verbali (GS non lo nega) e in altre funzioni che, forse, eccettuando il gerundio, potrebbero chiamarsi nominali: participi (veri e propri): verbo + aggettivo, infinito: verbo + sostantivo. Brevemente si può costatare per l'infinito che, in alcune costruzioni, la parte verbale prende la funzione principale, come quando l'infinito funge da verbo principale (non mi lasciare!¡E noi tutti a ridere)* -e che in altre la funzione sostantiva predomina, come in diversi gradi di "sostantivazione dell'infinito" (// vivere). — Bisogna a questo proposito sottolineare che la profonda analisi di quest'ultimo fenomeno in italiano (cap. X: L'infinito sostantivato, p. 487-536) forma un eccellente exemplum di come si può combinare e completare gli uni con gli altri i tratti semantici e quelli (formalmente) sintattici. Forse è il capitolo più riuscito di tutto il libro. Il tempo non mi ha permesso di trattare questa parte, che è, veramente, un gioiello nella letteratura sintattica sull'italiano. — Che l'infinito
funga da sostantivo (normalmente mantenendo anche la sua
funzione * Per GS qui si tratta de "L'infinito nella proposizione principale nominale". Cf. p. 466-482. Side 310
apposizione, - e retto da una preposizione. Quest'ultima funzione è importante in questo contesto, perché il ruolo delle preposizioni è giustamente di "aprire" una funzione per un sostantivo in un "posto" (una funzione) dove questo normalmente non si pone (come parte del discorso), senza che questa preposizione, però, generalmente ci dia una precisazione della funzione che prende questo complemento preposizionale. P. es. "oggetto" (indiretto) di sostantivi o aggettivi (la paura della partenza/contenti della partenza) - o funzione aggettivale(un vestito di seta/un vestito da sera/la lingua di Roma, dell'ltalia), avverbiale (parlare con difficoltà/In questo caso sarebbe felice/lavora nel campo/lavorerà tra tre anni, ecc. ecc). In questi casi, naturalmente, la funzione aggettivale e avverbiale, l'ha il sintagma preposizionale(come anche la funzione di "oggetto indiretto"). Visto cosi, non vedo nessun caso nel quale la funzione dell'infînito sia diversa da quella di un sostantivo normale - tranne, evidentemente, nella sua funzione verbale, specie quando questa prédomina. Cf.: Ho una lettera da scrivere/Ho una macchina da schvere (corne un vestitoda sera). Qui si tratta dell'uso aggettivale del sintagma composto di prep. + sostantivo/ forma sostantiva. La "retroattività" (Sandfeld) owerossia: la situazione a membro comune ("relativa") (con lettera corne oggetto di scriverë) è una conseguenza délia combinazione di verbalità e subordinazione a sostantivo (corne: una lettera che scrivo). Lo stesso vale per gli usi cosiddetti awerbiali dell'infinito: ho una famé da morire. E' vero che un parallelo esatto con sostantivo non sembra esistere, ma questo è un fatto che riguarda la distribuzione délie preposizioni. In questo caso mi sembra completamente errato fare una categoria a parte solo perché "non esiste possibilità di sostituzione con da prep. reggente un altro elemento nominale(sostantivo o proposizione completiva)" (p. 32). La sintassi délie preposizioni dimostra molti esempi di differenza tra varie scelte di preposizioni dovute al sostantivo retto dalla preposizione.Una differenza semantica non basta per parlare di "da non-preposizione", corne non bastano neanche pretese differenze sintattiche: L'analisi di ho una lettera da scriverë corne una relativa all'infinito comporta varie particolarità dovute alla verbalità dell'infinito, ma la relativa è un tipo spéciale di membro aggettivo. Nello stesso modo l'awerbialità di {ho una famé) da morire è specifica per la verbalità dell'infinito. Tutto questo, perô, non gli impedisce di essere anche sostantivo, subordinato attraverso una preposizione. In tutti i casi si tratta délia preposizione da attraverso la quale il sostantivo (e verbo) che è rinfinitivo viene subordinato potendo cosi prendere - insieme alla preposizione - la funzione aggettivaleo flvverbiale. Corne diceva, giustamcntc, Sv?n Skydsgnard, l'importante e che in tali essi ci sia una preposizione (subordinatrice), ma quale sarà questa preposizione, è un affare tra le preposizioni. Anche se per GS la preposizione, in troppo casi!, viene chiamata introduttore deil'rnfinito, è sempre preposizione. La distinzione tra preposizione "vera e propria" e "introduttore deirinfinito" si giustifica (temo di par tire Itemo questo vs. ho paura di par tire /ho paura di questo), ma in quanto alla funzione finale è sempre preposizione. E, comunque, se la distinzione è utile nel caso di temere di partire vs. aver paura di partire, non lo è nei casi sopracitati di da. La costante distinzione tra preposizione e introduttore su criteri più o meno semantici e distribuzione dovuta ad altri fattori complica enormemente il présente studio e nasconde linee generali altrimenti molto chiare. Il fatto di chiamare - in tanti casi - la preposizione introduttore dell'infinito, non deve velare il fatto che l'infinito è realmenteun sostantivo - spéciale nella sua verbalità -, ma sostantivo che, per via di preposizioni,puô prendere altre funzioni, - esattamente corne altri membri sostantivi. Sento - ma è difficile provarlo - un'analisi contaminata dalla struttura del danese. Vedo, in ogni caso, una descrizione molto complicata e, credo, inutilmente nebulosa. L'infinito è in se chiaramente Side 311
(verbo e) sostantivo, non ha ruoli sintattici che non può avere un sostantivo, tenuto conto, naturalmente, della sua co-verbalità. (Questo vale pure per l'uso "tematico" (Togeby), tipo: "cominciare dovevano cominciare"). Altrimenti detto, l'infinito non è - in sé - né aggettivo né avverbio: per prendere quelle funzioni richiede una preposizione, come gli altri sostantivi. Dire, come fa GS, in quelle situazioni sintattiche, che non si tratta di preposizione, ma di "introduttore dell'infinito" non ha senso. A parte il fatto che questa ultima "categoria" viene estesa, come lo vedo io, e come ho già detto, in un modo assurdo. Questo ci porta ad un altro errore fondamentale, in teoria e nella prassi: quello di voler ridurre "l'introduttore dell'infinito" come oggetto a di, owerossia l'idea di poter designare le funzioni delle preposizioni - in funzione di "segno dell'infinito" (secondo GS) a una distribuzione definita dal ruolo sintattico dell'infinito. (Cf. p. 30: "Nel suo uso nella frase, l'infinito è marcato da un segno che indica, in parte, la funzione esteriore dell'infinito"). Questo si capisce - forse - in parte dalla scoperta di GS relativa alle costruzioni relative infìnitive nelle quali ella ha visto che si usa, generalmente, la preposizione (GS: "il segno") da, se il membro comune è oggetto dell'infinito, e a se funge da soggetto: ho una lettera da scrivere/sono la prima a scrivere questo (Lascio da parte, qui, le costruzioni avverbiali: p. es. ho una fame da morire). Questa distribuzione, probabilmente, ha indotto GS a voler generalizzare il principio di funzioni specifiche, in questo campo, delle preposizioni. Così vediamo (con certa speranza: pensate se fosse tanto semplice!) nella disposizione del libro (per altro molto sistematica!) nel capitolo 11, dopo i tipi fare, lasciare + infinito (2), verbo modale + inf. (3), il paragrafo 4: verbo + di/oinf. (oggetto) che, a sua volta, precede il par. 5: verbo + ainf. (membro avverbiale). I diversi punti sotto 3 ("oggetto") sono scrupolosamente descritti o, piuttosto, elencati in quanto al soggetto dell'infinito in confronto a quello principale, in quanto a eventuali corrispondenze con che (+proposizione), possibilità di "passato" (*cerco di aver lavorato/dico di aver lavorato) e molti altri dettagli - alcuni dei quali mi paiono di poca importanza. Importanti sono, invece, eventuali sostituibilità dell'infinito con lo (oggetto!) o ne (oggetto "indiretto"), ma in genere non si arriva a regole. I vari costrutti così adunati non hanno sempre molto in comune, — tutto viene chiamato (inf. come) oggetto; — così sappiamo che quando "l'introduttore dell'infinito" è di, l'infinito è oggetto (per GS - se non è altra cosa). Io ci vedo solo un sentimento vago, non sempre giustificato — una petizione di principio. Ad ogni modo, dopo questi elenchi di infiniti smistati secondo vari criteri e contenenti tipi così diversi come p. es. promise di farlo/lo promise; ardiva di farlo/??; si accorse di averlo detto/se ne accorse; lo prego di aiutarmi/lo prego di questo (!); parlo di...; ho voglia di... (tipo trattato sistematicamente come verbo unico!); gli dico di farlo ¡glielo dico; lo scongiuro di/a partire/fio scongiuro che...), — dopo questi elenchi, dunque, non siamo arrivati molto vicino a regole generali, utilizzabili. Sotto questa etichetta - di + inf. (oggetto) - abbiamo visto alcuni casi con oinf. (p. es. bramare) o a inf. (scongiurare) ma erano varianti di costrutti con di inf. Così potevano - "per un pelo" - passare e giustificarsi. Ma è evidente che la situazione diventa più grave - secondo l'esposizione di GS — se ci sono altre possibilità di infinito come oggetto che si costruisconoin un altro modo. Appunto perché GS vuole vedere una distribuzione conseguente.E qui, credo, ha dovuto forzare, costringere la lingua italiana. E', comunque quello che fa nel paragrafo (II) 5: verbo + ainf. (membro avverbiale) (p. 174-215). Se è "in buona fede", il suo italiano le ha fatto uno scherzo. Discute a lungo il caso di imparare + alni., che le imponeseri ostacoli: e li elude - apparentemente con poco senso per l'italiano - nel modo seguente: E' vero che si possa dire: Dove hai imparato a parlare così bene l'inglese ?L'ho Side 312
imparato a
Cambridge. Se si tratta di lo (= oggett.) (perché,
infatti sappiamo che lo non è E' facile dimostrare che lo rappresenta l'infinito. P. es. se prendiamo un verbo intransitivo — giocare, p. es. — la costruzione rimane: Dove hai imparato a giocare così bene? - L'ho imparato a Cambridge. Qui cade, se ho ragione, tutta la teoria di GS, su questo piccolo dettaglio. E lo sforzo che fa per "scongiurare" la lingua in questo punto sembra mostrare che se ne renda conto. L'infinito è
oggetto dopo un verbo come imparare, — e c'è solo da
costatare che in molti Altri verbi che hanno un oggetto infinitivo introdotto da a sono: apprendere, insegnare, attaccare, cominciare, ricominciare, incominciare, iniziare, prendere, riprendere, ripigliare, continuare, proseguire, seguitare, provare: Cf.: gli insegno a giocar e ¡glielo insegno; continuo a leggere/continuo la lettura e a prendere degli appunti, ecc. E' chiaro che ci sono dei casi dubbi, zone oscure, però il grande sforzo di distinguere tra di + inf. (oggetto) e a + inf. (membro avverbiale) non convince, e non è - scientificamente - sostenibile. In molti altri casi, naturalmente, a + inf. è avverbiale, cioè si tratta di "a preposizione", non di introduttore dell'infinito nel senso sopra descritto. Cf. vatti a vestire/va' a Roma! Che ci siano distribuzioni diverse - va in Italia, p. es. - secondo il regime, è un problema "tra le preposizioni" (vide supra). L'importante è che ci sia una preposizione, a, in, da. Per GS a qui è "marca dell'infinito", indicante, in parte, la funzione esteriore dell'infinito. Inutile sottolineare che non sono affatto d'accordo. Un ultimo punto nella mia critica concerne il paragrafo sopra verbo + inf. (predicato del soggetto) cioè cap. 11, 6. Come si sa, ci sono (almeno) due tipi di predicato, I: quello di identificazione, dove i due termini possono essere permutati senza grandi conseguenze semantiche, e II: quello qualificativo, dove una permutazione non cambia la distribuzione tra soggetto e predicato. In I essere significa "=", è una predicazione di identità, sostantivo = sostantivo (definito); in II il predicato è un aggettivo o un sostantivo senza articolo e il soggetto, sostantivo, rimane soggetto, che l'altro termine preceda o segua. Molto
"stilizzatamente": I: Questo uomo
(S) èil medico/il rnedico (S) è auesto uomo. II: Questo uomo
(S) è medico/medico è questo uomo (S), frase che
presuppone una Questa
distinzione è essenziale anche per l'infinito come
predicato, in francese, almeno, e I: L'essentiel
est d'agir vite/de réussir cette affaire. II: Partir, c'est
mourir un peu. "c'est" significa "vuol dire", e in
questa qualifïcazione, Questa utile
regola viene discussa e esemplificata da Sandfeld e
continua, giustamente, nella E' ovvio che in
italiano la situazione è differente, checché ne dica GS.
("la distribuzione Side 313
0/di(de) in questo caso, grosso modo, è uguale nelle due lingue") (p. 220). Ma, laddove GS esce dal rigore di un trattato scientifico,è dove dichiara -in unanota (p. 217,N0TA 3):"lnvece,come spiegherò p. 220, non sono d'accordo per quanto riguarda l'interpretazione della grammatica francese (Sandfeld, Togeby, Pedersen et alii) dio/«/come predicato di qualificazionee delnf come predicato d'identificazione, anzi, secondo me, il rapporto è inverso!". Quest'ultima boutade — di una certa portata - non viene discussa, né là né a p. 220 (!). Quello che qui mi pare penoso, non è che si contraddicano i principi della tradizione citata per il francese, (anche se mi pare difficile ritenerli errati), ma è che li si rifiuti senz'altra giustificazione che - per GS "il rapporto è inverso". Sembrerebbe che GS abbia cambiato opinione durante la redazione e che aggiusti così l'affare — con una dichiarazione. Mi pare un atteggiamento arrogante e fuori luogo, specialmente in una tesi! Del resto, tutto il paragrafo sull'infinito come predicato è insoddisfacente e pieno di errori. Ed è peccato, perché proprio in questo campo difficile c'è bisogno di sapere come "comportarsi". Metodologicamente si deve anche criticare che in molti casi GS deduca una regola da esempi concreti che, invece, con differenze stilistiche o no, offrono le due possibilità di costrutto. A proposito del predicato, vorrei solo accennare all'analisi di GS della costruzione del tipo (egli) sembrava dormire. Qui segue - in parte - l'interpretazione (per il francese) di Pedersen, Spang-Hanssen, Vikner: Fransk Grammatik (Cop. 1980), in cui il costrutto è caratterizzato come (inf. =) predicato del soggetto. Mi dispiace di dover rifiutare tale (semi-) interpretazione completamente. Una predicazione, come abbiamo visto, è o di tipo sostantivo (identificazione) o di tipo aggettivo (qualificazione). Nel primo caso, si fa una identificazione tra egli e dormire, cosa assurda, o, nel secondo caso, si qualifica egli per via di dormire (come egli per via di malato in egli sembra malato), ciò che mi pare altrettanto assurdo, - nel caso che predicato abbia lo stesso valore che ha in tutte le altre situazioni sintattiche dove si utilizza il termine. Rinvio alla discussione di Sandfeld (loc. cit.). La sua argomentazione pare ancora oggi convincente: In l'enfant semble dormir vede l'enfant + dormir come il soggetto di semble. Questa analisi - la giusta, secondo me — ha, però, bisogno di essere un po' affinata e confrontata con altre costruzioni parallele. Con le stesse condizioni concordo anche con Sandfeld nella analisi della costruzione analoga: vedo la contadina filare (GS p. 245 ss.) (Sandfeld: la coni. + filare - ogg. di vedo). Non posso così condividere l'opinione di GS (P. 246-47): "Sono propensa ad accettare che ci siano differenze fra ti vedo triste e ti vedo correre — che, però, sono dovute alle diverse categorie a cui appartengono i membri. Ciò nonostante mi sembra lecito parlare di funzioni identiche". Tutto sta, appunto, nella diversità delle categorie. — Ma qui si discute, almeno! E' una situazione strana e, delle volte sgradevole, sentirsi censore davanti a una buona amica e collega con cui si è collaborato per lunghi tempi. Però, è necessario, così mi pare, e per questo mi sono messo la toga - praetexta — per fare il census di tutti gli infiniti di GS e esaminare il loro stato e le loro divisioni. Comprehendere et reprehenderé. Mi è sembrato importante e ho cercato di farlo così coscienziosamente come GS ha elaborato il suo libro. Ho dovuto limitarmi ad alcuni problemi tra quelli che mi hanno colpito di più. Come dissi all'inizio, tante speranze si sono fatte a questo libro. Allora, forse, non è così strano che ci siamo un po' delusi. Però, siamo anche grati di poter ormai trovare un'infinità di informazioni Aarhus
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