Revue Romane, Bind 19 (1984) 2Risposta a Jorgen Schmitt JensenGunver Skytte Side 314
Avrei potuto fare un elenco completo di tutti i punti singoli rilevati da Jorgen Schmitt Jensen nel suo esame critico del mio libro. Ho preferito, invece, concentrare la mia risposta o il mio commento intorno ad alcuni argomenti centrali. Ho scelto questo procedimento perché mi accorgo che lo stesso concetto critico di JSJ esclude un dialogo. Passerò quindi in rassegna alcuni argomenti atti a chiarire la discussione per il lettore interessato. Si tratta degli
argomenti seguenti: 1) questioni di metodologia; 2)
funzione dell'infinito; Questioni di metodologia. L'analisi dell'infinito su cui si basano le osservazioni di JSJ è, grosso modo, quella di Sandfeldl. Come già espresso nel libro, nutro un profondo rispetto per l'opera di Sandfeld. Trovo però che la struttura e l'analisi da lui adoperate, p. es. per quanto riguarda la descrizione funzionale, non siano pienamente soddisfacenti. Questo vale specialmente per quel che richiede un'esposizione moderna della sintassi infinitiva. In Sandfeld l'interesse è concentrato intorno alla struttura linguistica della singola lingua concepita come una struttura piuttosto fissa. Tra le tante prospettive a cui da maggior rilievo la linguistica odierna, vorrei menzionare nel presente contesto il cambiamento della lingua ossia la diacronia e la linguistica contrastiva. Queste due prospettive giustificano l'accostamento della sintassi dell'infinito a quella delle proposizioni subordinate (si confronti p. es. l'evoluzione dall'it. ant. ti prego che venga all'it. mod. ti prego di venire2, nonché i casi in cui il costrutto infinitivo di una lingua va reso in un'altra lingua con proposizione subordinata) piuttosto che alla sintassi del sostantivo (sistema di Sandfeld)3. La linguistica contrastiva richiede una descrizione delle singole lingue che permetta un confronto tra due o più sistemi diversi; questo facilita pure i processi di traduzione. Anche per questo motivo mi sembra importante trattare insieme cominciare a capire e venire a capire, invece di separarli con riferimento alla sintassi del sostantivo e la sostituzione pronominale (si confrontino per i casi citati: lo comincio, ci vengo, casi che mi sembrano piuttosto artificiali). Per altri argomenti, mi permetto di rimandare alla discussione con Palle Spore. Per quanto riguarda la mia posizione metodologica ammetto di aver dato una forma troppo rigida e categorica alle dichiarazioni fatte all'inizio del mio libro, soprattutto rispetto alia grammatica generativa. Cercherò di chiarire un po'. Non c'è nessun indirizzo linguistico a cui io possa aderire senza riserve. Come spiegato nel libro, la mia formazione è stata strutturalistica, e, partendo da questa base, ho seguito e vissuto le vicende della linguistica attraverso gli anni '70 e '80, e su questa esperienza si è venuta formando la mia visione personale della lingua, che comprende pure elementi della grammatica generativa. Una specie di eclettismo, come disse infatti Palle Spore, scherzoso, in occasione della discussione 1: Sandfeld, Kr.: Syntaxe du français contemporain. III: L'infinitif. Copenhague 1943. 2: Si confronti Skytte, G.: L'alternanza di + infinito/che + verbo finito in italiano in prospettiva diacronica. Atti del XVI Congresso Internazionale di Studi della Società di Linguistica Italiana. Firenze, maggio 1982 (in corso di stampa). 3: Secondo me, è inutile discutere se l'uno o l'altro approccio sia quello giusto. Dipende dall'intento dell'esposizione. Per questo mi stupisco di certe espressioni di JSJ, usate a proposito della validità di certe asserzioni mie o sue, come p. es. 'non è vero', 'è vero', 'in realtà' ecc. Side 315
della mia tesi.
Con tutte le connotazioni negative della parola, credo
che sia una posizione Funzione dell'infinito. Secondo la concezione di JSJ, l'infinito funge da sostantivo (si confronti soprattutto p. 309-10), ed è questo forse il punto più essenziale che ci separa. Su tali premesse è chiaro che la sintassi dell'infinito deve seguire il modello della sintassi del sostantivo, e che di, a, da davanti all'infinito vengono considerate preposizioni. Il sistema che è quello che conosciamo da Sandfeld, sembra consistente. Secondo me, la categoria sostantivo (classe di parole) non descrive la funzione dell'infinito in modo esauriente. Sostantivo non è denominazione soddisfacente non coprendo la funzione verbale dell'infinito. Il sostantivo è una classe di parole che per quanto riguarda la funzione nelle frase, 1) forma il nucleo di un sintagma sostantivale (caratterizzato dal fatto che ad esso possano essere subordinati membri di tipi ben determinati), 2) funziona da membro sostantivale. Ora, rimane poco chiaro quale importanza JSJ presti alla verbalità dell'infinito. Qualche volta parla infatti di verbo-sostantivo. Ma non rivela come intende descrivere e interpretare i vari gradi di verbalità. A p. 309 parla di vari gradi di "sostantivazione" e a p. 310 dichiara: '" ... non vedo nessun caso nel quale la funzione dell'infinito sia diversa da quella di un sostantivo normale - tranne, evidentemente, nella sua funzione verbale, specie quando questa predomina." Asserzione che probabilmente dev'essere conclusiva e basale, ma che rimane piena di punti interrogativi. Tale confusione nasce appunto per la mancanza di distinzione tra categoria e funzione. 10, per vari motivi, ho scelto un altro approccio alla sintassi infinitiva. Ho scelto di descrivere l'infinito non come sostantivo, ma come infinito, e cioè, come una forma verbonominale (si confronti il mio libro p. 22-24), che, per quanto riguarda la funzione, forma il nucleo del sintagma infinitivo in cui la funzione nominale (esteriore) predomina su quella verbale (interiore) (si confrontino. 24 ep. 27-29). La teoria rende conto del grado dinominalità e verbalità nei singoli casi. L'infinito (e non qualche fratellastro come p. es. il sostantivo) rimane, cioè, protagonista del dramma della sintassi infinitiva. Ho però assegnato la parte dell'antagonista alla sintassi della proposizione subordinata. Ci sono vari motivi per cui trovo più soddisfacente questo modello, e tra questi vorrei rilevare la dimensione diacronica già menzionata. Studiando l'evoluzione della lingua italiana, ci si accorge che per molti verbi che oggi si costruiscono con l'infinito, tale costrutto risale ad una costruzione con una proposizione subordinata, anzi, in certi casi, e in certi periodi (secondo i singoli verbi reggenti o i singoli tipi di costrutto) si assiste a una lotta tra questi due costrutti. Anche sotto il punto di vista della linguistica applicata, penso che sia piuttosto utile offrire un modello di descrizione che accosti tra loro, rendendo conto della loro distribuzione, costrutti come: (1) nascondo di
aver capito (2) nascondo che
ho capito e (3) glielo disse
in modo da offenderlo (4) glielo disse
in modo che lo offese (1) nascondo di
aver capito (4) nascondo la
borsa Side 316
e (3) glielo disse
in modo da offenderlo (5) glielo disse
in modo da ?? (e qui, nell'es. 5 mi manca, a dire la verità, l'esempio adatto: comunque, andrebbe collocato nel capitolo che tratta la preposizione da, se si vuole seguire il modello di JSJ). — C'è inoltre da osservare il parallelo semantico tra il verbo quando regge l'infinito e lo stesso verbo quando regge una proposizione subordinata, costrutti che si distinguono in modo più o meno marcato dalla semantica del verbo reggente un sostantivo (si confronti p. es. p. 138-39, a proposito del verbo nascondere). Ancora una volta, mi oppongo al procedimento di partire sempre dalla sintassi del sostantivo quando si tratta della sintassi dell'infinito, si confronti JSJ, p. 307: "E' importante sapere là dove, p. es., si ha un oggetto diretto (senza preposizione), se si tratta di un sostantivo, l'infinito nella stessa funzione...". Mi sembra un procedimento artificiale, ereditato dalla tradizione. Fa pensare all'assurdità commessa dalle grammatiche tradizionali nel trattare sempre l'articolo per primo. Dopo aver brevemente reso conto dei nostri vari punti di vista rispetto alla funzione dell'infinito, vorrei per un momento esemplificare come JSJ discute e riferisce i miei punti di vista ed i miei argomenti. Il lettore che conosca il mio libro soltanto attraverso la critica di JSJ, deve averne un'impressione assai confusa. JSJ non può, evidentemente, citare lunghi passi interi per non fare torto a me. Ma considerando la responsabilità assunta da un censore "togato", ci si sarebbe potuti aspettare un modo di citare e, in genere, un procedimento più leale. A p. 309 JSJ cita in parte la mia definizione dell'infinito, cioè la parte riguardante la funzione esteriore, da me denominata nominale. Dalla citazione di JSJ non risulta però chiaro che si tratta soltanto di una parte della mia definizione (si confronti il mio libro p. 23-24): non si capisce che riguarda soltanto la funzione esteriore dell'infinito, né che la parte rimanente riguarda in modo più preciso la funzione verbale. Ma in un primo momento sembra che JSJ voglia servirsi di questa citazione per discutere funzione nominale vs funzione sostantivale. Ma desta sospetto quando JSJ poi parlando della funzione verbale dell'infinito, a propòsito della sua definizione dell'infinito come verbo-sostantivo, cita la mia concezione della verbalità delle forme infinite tra parentesi e nella forma seguente: " .. (GS non lo nega) .. " (si confronti p. 309). - Nella stessa pagina si può constatare che JSJ loda il capitolo X del mio libro, citandolo in favore della sua tesi. Si tratta di una lettura sbagliata: nel capitolo X si dimostra che l'infinito, non essendo in sé un sostantivo, sotto determinate condizioni, si presta ad una sostantivazione, e forma, cioè, il nucleo di un sintagma sostantivale. Questa sostantivazione si verifica in diversi gradi; e questi gradi servono a dimostrare il rapporto tra il carattere nominale (che finisce col predominare) e il carattere verbale (cedente rispetto al carattere nominale) dell'infinito. Credo che la lettura un po' particolare di JSJ sia dovuta al fatto che egli - come ci confermò in occasione della discussione della mia tesi — da qualche tempo sta lavorando a una grammatica italiana. Avrà già a priori, prima di aver letto il mio libro, stabilita la struttura atta all'esposizione della sintassi infinitiva nella sua grammatica. Le nostre due strutture non collimano, e da lì sorge il dilemma. Riconoscendo questo dilemma e le ragioni per cui è sorto, si capirà meglio la forma della critica di JSJ: egli, infatti, parte dalle premesse e le strutture già stabilite per il proprio lavoro, senza, purtroppo, prestare tanta attenzione o attribuire tanta importanza alle premesse generali della dottoranda. Side 317
Per valutare
questi due approcci, l'uno rispetto all'altro, non è
possibile procedere punto Funzione
dell'introduttore dell'infinito. Per poi passare
all'ultimo punto della esposizione JSJ adopera il termine segno dell'infinito in un modo che corrisponde a quello già usato da Sandfeld, e cioè, come denominazione di di, a, da + infinito, ma soltanto nei casi in cui non sono sostituibili da di, a, da + sostantivo. Per quanto riguarda la funzione, essa rimane sempre quella di una preposizione*. 10, invece, adopero il termine introduttore dell'infinito per indicare 0, di, a, da come primo elemento del sintagma infinitivo (e, cioè, in tutti i casi in cui l'infinito non forma il nucleo di un sintagma sostantivale, né appare in condizioni identiche a quella del sostantivo). Come primo elemento, o parte integrante, del sintagma e diversa da quella della preposizione*. L'introduttore ha una funzione specifica in quanto indica certe possibilità funzionali (esteriori, riguardanti la funzione nella frase, e intcriori, riguardanti l'estensione della verbalità). Inoltre, è possibile stabilire, secondo l'introduttore specifico, un certo parallelo tra i vari tipi di proposizione subordinata e i vari tipi di sintagmi infinitivi (si confronti il mio libro, p. 34-35). La funzione dell'introduttore rispetto al sintagma infinitivo si può paragonare a quella della congiunzione rispetto alla proposizione subordinata6. La distinzione
funzionale tra preposizione e introduttore serve appunto
a distinguere (6) una lettera
da scrivere (7) una macchina
da scrivere In (6) si tratta
di da introduttore: si noti la possibilità di
sostituzione con proposizione (6a) ho una
lettera da scrivere a Maria Invece, la
sostituzione con sostantivo rimane esclusa in (6).
In (7) da
funziona da preposizione. Non esiste la possibilità di
sostituzione con proposizione (7a) *ho una
macchina da scrivere a Maria 4: Si confronti a questo proposito l'interessante articolo di P. Skârup: To antagelser i danske fremstillinger af den ny-franske infìnitivs syntax. (Pré)publications nr. 22. Romansk Institut. Aarhus Universitet. Febr. 1976. 5: Si confronti Vikner, C: L'infinitif et le syntagme infinitif. Revue Romane XV, 2, 1980, p. 252-91, e in particolare, le osservazioni molto interessanti a proposito del- I'"indice", p. 265. 6: A rinforzare l'adeguatezza del parallelo sintagma infinitivo — proposizione subordinata, serve il loro comportamento analogo rispetto alle preposizioni. Le preposizioni che permettono come reggenza una proposizione subordinata, permettono anche un sintagma infinitivo, mentre quelle che permettono soltanto una proposizione subordinata attraverso il fatto che, si costruiscono coll'infinito soltanto se questo è sostantivato. Si confronti p. 35-36. Side 318
mentre esiste la possibilità di sostituzione con sostantivo (una macchina da corsa). L'infinito, infatti, in questo caso compare in condizioni identiche a quelle del sostantivo, senza articolo, per designare lo scopo a cui serve l'oggetto designato dal sostantivo reggente (qui macchina). Si confronti a questo proposito JSJ p. 310. Non risulta chiaro come egli intenda interpretare la differenza fra questi due costrutti - forse così: "... è un fatto che riguarda la distribuzione delle preposizioni." Per quanto riguarda la mia interpretazione, che JSJ caratterizza nel modo seguente: "Una differenza semantica non basta per parlare di "da non-preposizione", come non bastano neanche pretese differenze sintattiche ...", oltre a quanto già detto sopra, faccio riferimento al mio libro p. 31-33, 393 e 398-400. La posizione di JSJ (e quella di Sandfeld) è sempre dovuta al punto di partenza, cioè, il modello della sintassi del sostantivo. Come osserva giustamente Povl Skárup (op. cit.), se la funzione dell'introduttore (o segno) dell'infinito è quella di una preposizione, è difficile vedere le ragioni per mantenere tale terminologia. Blinkenberg, a ragione, ha sottolineato il bisogno di ricerche diacroniche in questo campo. Infatti, credo che si possa chiarire il rapporto preposizione — introduttore, considerandolo nella prospettiva diacronica. Le forme verbali infinite del latino sono state sostituite in parte da forme analitiche in italiano, e per creare queste forme analitiche ci si è serviti delle preposizioni di, a, da, le quali, però, come dimostrato sopra, hanno assunto una funzione specifica in combinazione col sintagma infinitivo. Il cambiamento della lingua offre altri casi in cui la lingua, per creare una nuova funzione, si serve di categorie già esistenti (avremo così omonimi con funzioni diverse). Un esempio molto evidente è quello dell'articolo partitivo. Nel seguente esempio (8) voglio del
pane credo che la maggioranza chiami de! pane un sintagma sostantivale, in cui del funziona da membro determinante, anziché un sintagma preposizionale. Un altro esempio altrettanto evidente è la creazione dell'articolo indeterminativo che risale al numerale latino. UNUS in latino è soltanto numerale, mentre l'italiano uno è un caso di omonimia, rappresentando sia la funzione di numerale sia quella di articolo indeterminativo. Prima di concludcre confermo di essermi accorta con rammarico deUa non-validità di certe regole. fbrrnulate in 11, 6.21. ?e: quanto riguarda il cosîrutto deî tipo (egO) senihrava dormire e ti vedo correre, devo constatare ancora una volta che non sono stata citata fcdelmente, e mi sembra fuori luogo tirare in ballo anche gli autori di Fransk Grarnmatik. Interessante è la battuta finale di JSJ, quando egli, volendo invalidare la mia analisi di ti vedo correre (secondo me analogo ati vedo triste"l), conclude: 'Tutto sta appunto nella diversità delle categorie." (p. 313)8. Tale battuta si potrebbe a maggior ragione applicare alla concezione secondo la quale l'infinito è un sostantivo. Ed eccoci finalmente d'accordo: tutto sta appunto nella diversità delle categorie. Copenaghen
7: E analogo anche alo vedo che corre, lo vedo a correre (casi pero non citati da JSJ). 8: Ancora una volta si noti la distinzione mancante tra categoria e funzione; nel caso citato, infatti, si tratta àxfunzioni analoghe. |