Revue Romane, Bind 10 (1975) 2

Evoluzione del capitolo ternario

Emanuela Kromann

Con il termine capitolo, o capitolo ternario/temale, intendiamo quel particolare componimento che derivò il metro dalla Divina Commedia e il nome dalla ripartizione dei Trionfi del Petrarca (Minturno, «Arte poetica», libro 111, Venezia 1564). Non esiste una differenza metrica tra la terza rima e il capitolo ternario, trattandosi in entrambi i casi di una serie di terzine di tutti endecasillabi di schema ABA/BCB/CDC/.../XYX/YZY/Z, in cui ogni rima - ad esclusione della prima e dell'ultima - ritorna per tre volte ad intreccio. Tutti sono d'accordo con quanto appena affermato. Le cose cambiano però quando si vuole definire la sua tematica e, mettendola in relazione con la terza rima, definirne i rapporti, o di vicinanza, o di distanza. Tradizionalmente, si sa, il capitolo ternario ha legato il suo nome ad una tematica burlesca, parodistica, e, a partire dal Berni si è identificato con i componimenti scritti da questi e dai suoi imitatori. Certi studiosi, come ad es., R. Spongano (in «Nozioni ed esempi di metrica italiana», Bologna 1966) ritengono ingiustificata una distinzione tra la terza rima e il capitolo ternario, identica essendo la loro forma metrica. Lo Spongano non dice un gran che su una differenza stilistica tra le due forme, ma risolve la questione puntando la sua attenzione sulla terza rima: quel metro nato dalla Divina Commedia, un'opera cioè che conteneva tutti gli stili dall'umile al medio all'alto, in seguito era passato alla poesia politica e morale del secolo XIV, all'amorosa del secolo XV, alla burlesca del secolo XVI, continuando ad adattarsi a generi svariati, arrivando fino al Pascoli. Diversa è la posizione di W. T. Elwert («Italienische Metrik», Max Hueber, München 1968). Costui fa una distinzione tra la terza rima e il capitolo tracciando per la prima una linea che va da Dante e dalla poesia allegorica del '300 («Trionfi», «L'amorosa visione», «II dittamondo», «II centiloquio») attraverso Lorenzo il Magnifico («Connto»), Sannazzaro («Arcadia»), Ariosto («Satire»), a Salvatore Rosa, all'Alfieri, al Leopardi («Primo amore»), fino al Carducci in «Idillio maremmano». Per il capitolo la linea invece va

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dai Trionfi e dalla poesia moralistica e politica del '300, alla poesia amorosa
dei cosiddetti presecentisti (Canteo, Tebaldeo, Serafino) fino ad arrivare al
Berni e alla poesia bernesca.

Se ad es. apriamo il Dizionario enciclopedico della letteratura italiana, Laterza, Unedo, troviamo che il capitolo nasce nel '300 e termina nel '700; «re del capitolo burlesco è il Berni che seguendo l'esempio inaugurato da Lorenzo il Magnifico nei «Beoni», lo usò a trattare materia giocosa, dando senzione e regolarità a un modulo che perdurò per tutto il Seicento e il Settecento e nel quale fu composta tanta della poesia «giocosa» o «bernesca ». »

Fubini («Metrica e poesia», Feltrinelli 1962) nel suo studio sulla terzina riconosce il capitolo come forma a sé stante, che deriva il suo metro dalla terzina, ma che vive una sua vita indipendente da essa e afferma: «La terzina per l'esempio di Dante fu ancora usata dai poeti non solo dai poeti didascalici del Trecento ma anche nei secoli successivi come metro del serventese, dell'egloga, del capitolo... »e più oltre: «... di contro ad essa (l'ottava) la terzina è il metro dello sfogo, della confessione, delle elegie, o capitoli, delle satire .... »

Secondo noi è legittimo staccare la terza rima dal capitolo ternario riconoscendo a quest'ultimo una sua particolare tematica - una tematica burlesca, parodistica appunto. Per tracciare poi una sua evoluzione bisogna prima di tutto fermarsi sul termine capitolo e di conseguenza dunque rifarsi^ii Trionfi-4eí Petrarca^ U Petrarca 4nfattFaveva dmserTÍ poemetto didattico allegorico in sei capitoli - o quadri - dove in forma di visioni si succedono il trionfo dell'Amore, della Pudicizia, della Morte, della Fama, del Tempo, dell'Eternità. L'intento del poeta era quello di comporre un'opera di significato universale in cui l'esperienza personale della sua vita e del suo amore doveva assurgere all'eternità attraverso un percorso allegorico. Il risultato fu un'opera poco felice, incompiuta, che risente della Divina Commedia nella struttura generale, nello schema narrativo, nel metro. Come mai il Petrarca che nella XXI, 15 delle Familiares aveva ben chiaramente risposto al Boccaccio ed espresso la sua indipendenza nei confronti di Dante («Ma questo io affermo che se qualche parola o espressione si trovi nei miei versi che a quella di quel poeta o di altri sia simile o uguale, ciò avvenne non per frutto o per volontà di imitare - due cose che come scogli cercai sempre di evitare, soprattutto scrivendo in volgare - ma per caso fortuito o, come dice Cicerone, o per somiglianzà d'ingegno, calcando io senza volerlo le orme altrui. . . ») nei Trionfi imitò Dante e il suo metro? Sicuramente, contro la sua stessa volontà, il Petrarca

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non uscì immune dall'influsso di Dante che toccò più o meno tutti nel '300.

Solo nel '400 e nel '500 abbiamo la fioritura di autentici capitoli, di quei caratteristici componimenti di contenuto satirico e burlesco scritti in terza rima. Il merito di questa tematica va soprattutto agli autori Stefano di Tommaso Finiguerri, soprannominato il Za (sec. XV), Giambino Gambino d'Arezzo (sec. XV). Notevole fu la parte di Lorenzo il Magnifico, determinante e perfezionatore l'apporto del Berni.

Per tutto il '600 e el '700 continua la maniera bernesca con Antonio
Francesco Grazzini detto il Lasca (1503-1584) e C. Caporali (1531-1601),
con il Parini, C. Gozzi e i suoi amici dell'Accademia dei Granelleschi.

La tradizione bernesca e quindi l'uso del capitolo storicamente termina con Alfonso Varano (1765-1788) che con le sue dodici «Visioni» - grazie alle quali fu chiamato «unico e rinnovatore» dello stile di Dante - ritorna alla tradizionale ammirazione e imitazione di Dante e del Petrarca.

Per poterci spiegare il perché della nascita e della diffusione del capitolo, e dunque della sua particolare tematica, dobbiamo riportarci a quella letteratura quattrocentesca iniziata da Stefano di Tommaso Finiguerri e Gambino d'Arezzo che imitarono la Commedia e i Trionfi solo ad intento parodistico.

I due grandi modelli saranno dunque imitati nella struttura generale,
nella forma metrica, nei vocaboli, nelle locuzioni.

Il '400 abbonderà di «Visioni» e di «Trionfi», di lunghe filze, di lunghe
rassegne di una particolare categoria di persone, meritevoli soprattutto di
rimprovero e di derisione.

Dunque l'altra faccia dei «Trionfi» o l'altra faccia del petrarchismo: quello cioè che può essere chiamato petrarchismo negativo o reazione al dilagante petrarchismo. Ciò che nei Trionfi petrarcheschi si esaltava, si lodava, qua si distrugge, si deride, si scimmiotta. Aspetti volgari ed equivoci di una misera realtà quotidiana sono camuffati in sembianze solenni al solo scopo di aumentare la stonatura tra contenuto e forma e di suscitare - di conseguenza - ulteriore ilarità.

Di Stefano di Tommaso Finiguerri, soprannominato il Za si conoscono poche notizie biografiche. Si sa soltanto che, fiorentino, nel 1422 era nelle Stinche per debiti. Per i suoi tre poemetti - «La buca di Monteferrato», « Lo Studio di Atene », «II Gagno » (pubblicati da Lodo vico Frati, Bologna 1884 in SCL.) valga come introduzione quanto scrisse il Fanfani («Nuova Antol.» Firenze 1867, voi. V. pag. 282):

«Resta ora che si parli de' poemetti del Finiguerri coetaneo del Burchiello e
forse uno della sua combriccola. Se ne conoscono tre, in terza rima, inediti

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tuttora, ma illustrati su' codici fiorentini dove leggonsi, dall'abate Follini, con una assai dotta lezione, inedita anch'essa. Questi poemetti sono: La Buca di Monteferrato, Lo Studio d'Atene, II Gagno ; e vi si mettono amichevolmente in canzonella, o per la miseria o per l'ignoranza un diluvio di cittadini fiorentini.

Sono disegnati come una visione, a modo della Divina Commedia, di cui è palesissima per tutto la imitazione; e ce ne sono copiate quasi intere le terzine, salvo lievissimo cambiamento... La loro lingua è assai buona, la poesia assai rozza, benché alle volte attrattiva e gioconda ».

Il poemetto «La buca di Monteferrato» è sicuramente posteriore al 1407. L'indicazione è ricavabile dai vv. 460-463, con il riferimento a Jacopo da Montepulciano (« Et nelle stinche anni diciasette/istette già colui con molto honore/e anche di tornarvi a Tieri promette»). Un confronto con una lettera datata I*ll maggio 1405, scritta dallo stesso Tieri ci fa arrivare all'anno 1407. Al poeta che sta dormendo appare in visione Tieri Tornaquinci, noto banchiere fallito, che si offre di fare da guida al poeta sopra Monteferrato, nella valle dell'Ombrene pistoiese, presso una gran buca dove è nascosto un tesoro. In questo luogo arrivano tutti i falliti - soprattutto fiorentini - ridotti in povertà per debiti e vizi e fanno a chi prima « s'imbuca » per mettere le mani sul tesoro.

Quanto alla struttura, il poemetto è una generale imitazione della Divina Commedia: l'espediente della visione, della guida, i lunghi elenchi di personaggi realmente esistenti, ed infine la narrazione in prima persona. Il poemetto ha una notevole importanza storica per l'enorme quantità di notìzie che da di tutti îpersonaggî e per il fatto che essi sonoTiportatï con il loro vero nome e cognome, a differenza da quanto accade in altri poemetti del genere. Benché secondo il Fanfani lo spirito che anima il poeta in questa parata di personaggi più o meno malfamati sia amichevole («vi si mettono amichevolmente in canzonella o per la miseria o per la ignoranza »), a noi pare piuttosto si tratti di una vera e propria opera diffamatoria dissimulata da un tono brioso e scherzoso. La generale imitazione della Divina Commedia salta immediatamente all'occhio fin dalle terzine iniziali che riportiamo qui come esempio. Il tono e lo stile rimangono invariati per tutti e quattro i capitoli :

Dormendo, in vision pervenni, desto
trovami corne uccel di poche penne
che d'ogni tempo nuota per lo agresto.

Tiere Tornaquinci più saputo venne
a farmisi vedere e rivelare
alcun segreto ch' Anton Ghuardi tenne.

Tutto leggier sorridendo a parlare

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mi cominciô: ascholta e intendi ancho,
et poi partito si vorrà pigliare.

Tavoliere fui et sai ch'i' feci bancho,
assai di danari io ebbi degli altrui
e loro e miei mi sono venuti mancho.

Mentre ch'io n'ebbi assai cortese fui,
al pensier mio da bancho i' ô levato.
Presemi per la mano ond'io con lui;

E mi menô in più secreto lato
fuor délia porta e disse: amico charo,
aspetta un poco poi ch'i' t'ô trovato.

Nell'altro poemetto «Lo Studio di Atene», l'autore immagina che la città di Firenze, per rifare Io Studio, mandi ad Atene una sua ambasceria composta di tre personaggi: il giudice Mucini del quartiere di S. Spirito, Messer Ceceo Machiavelli e il giudice de' Niccoli. Accanto ad essi c'è una folta moltitudine di gente che si reca ad Atene. Come è facilmente intuibile non si tratta certo di gente particolarmente dotata secondo il nostro autore che continua con lo stesso tono pettegolo e diffamatorio che abbiamo già avuto modo di conoscere. Al I cap., vv. 13-15, troviamo: «O quanta nobil gente si contiene/in questa vaga e bella imbasceria/di poco senno le lor menti piene. »

Anche in questo poemetto è presente una chiara imitazione della Divina Commedia, ad es. la guida - o meglio le guide Piero Vettori al I cap. e Ser Gigi al II cap. - e la narrazione in I pers. Il tono continua buffonesco e non nasconde però l'intento pettegolo e diffamatorio, benché il poeta dichiari ai vv. 16-18 che il suo fine è di divertire («Se ti piace lettor ti pregheria/che tu gustassi d'està gente il nome/se vuoi avere alquanta giulleria»).

Il terzo ed ultimo poemetto «II Gagno» consiste di un solo capitolo e non presenta nessuna caratteristica tematica o metrica rispetto agli altri. Al poeta che sta dormendo appare una nave carica di « sciocchi e genti ricche tutte quante in sogno». Attraverso la sua guida ha modo di conoscere i nomi di tutta quella turba che va a rifarsi all'isola del Gagno «dove non si paga scotto » :

Dormendo un giorno per posar mia testa
mi risvegliai a grido di ranocchi
tanto mi fu iniqua lor tempesta.

Io mi rizzai e spinsi intorno gli occhi
per conoscere il loco dov'io era,
ver'è che io mi trovai tra molti sciocchi.

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Io riguardai intorno al mal ghuadagnio
e vidi venir ver' me armato un legnio,
allor si raddoppiô il grave lagnio;

Sulla stessa linea del Finiguerri si trova l'altro rappresentante della poesia burlesca di questo secolo: Bernardo di Stefano detto Gambino d'Arezzo. Nato tra l'arco di tempo che va dal 1420 al 1430, si ricorda per un poemetto diviso in due libri: «Delle genti idiote di Arezzo» e «Degli uomini famosi di Arezzo ». Il poeta fingendo di fare un giro intorno alla città di Arezzo, dentro e fuori delle mura ci fa conoscere una moltitudine di persone di nessuna importanza, morte alla società e alla storia prima ancora di essere morte. Si tratta dei suoi compatrioti che egli passa in rassegna alla guida di Leonardo Aretino. Il poemetto non rappresenta niente di originale rispetto ai precedenti benché per l'occasione e l'argomento si avvicini al Simposio di Lorenzo de' Medici, l'altro grande rappresentante della poesia burlesca del Quattrocento. Ci sia permessa qualche osservazione su di lui.

Nato nel 1449 ebbe modo di godere fin dalla prima giovinezza di una esistenza a contatto di poeti e letterati che si riunivano in casa Medici. Si dedicò ben presto ad una intensa attività letteraria caratterizzata da uno straordinario impulso dato alla rivalutazione della tradizione fiorentina e del toscano.

La sua particolare simpatia per una poesia burlesca e caricaturale si rivelò conta «Nencia xia Barberino»^l47o, data ante quem della composizione), continuò nell'«Uccellagione di starne» (1476 data ante quem) e si accentuò nei capitoli del poemetto burlesco «II Simposio» o «I Beoni»; grazie a quest'opera entrerà a far parte della «catena» che abbiamo fatto iniziare con il Finiguerri. L'occasione e l'argomento del Simposio sono simili a quelli del poemetto di Gambino d'Arezzo. Anche qui l'azione inizia per caso in occasione di una passeggiata che il poeta fa un giorno d'autunno ritornando da Careggi verso Firenze. Una gran folla di gente sta correndo al Ponte a Rifredi per assaggiare un vinello che Giannesse ha spillato («un botticel di vin che presti facci e lenti piedi »). È facilmente intuibile come il poeta, prendendo spunto da tale occasione, ci serva un lungo elenco dei più famosi bevitori della città. L'intento è decisamente parodistico e l'impianto generale, come nella struttura interna del verso si riporta alla Commedia e ai Trionfi:

Nel tempo ch'ogni fronde lascia el verde
e prende altro color e 'mbiancon tutti
gli albori e poi ciascun sue foglie perde;

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e '1 contadin con atti rozzi e brutti,
ch'aspetta el guiderdon d'ogni suo affanno
vede pur délie sue fatiche e frutti;

Se chiaro è il riferimento al verso iniziale dei Trionfi («Al tempo che rinnova i miei sospiri »), altrettanto poco originali sono i versi che puntualizzano situazioni ridicole, o satira antiecclesiastica. Si possono citare alcuni esempi di somiglianzà tra i Beoni e la Buca di Monteferrato:

«Quel ch'è più grasso è '1 piovan delFAntella » (Beoni, v. 76)

«F l'udi' nominare il piovenaccio
e udii dir ch'alle stinche fe' leggie
che assai grasso si mette in sul migliaccio» (Buca di Monteferrato, vv. 169-171)

«Con quel naso appuntato, lungo e strano » (Beoni, v. 80)

«Ancho io vidi un vecchio molto sano
naso à di bevitor di que' piu lodi» (Buca di M., vv. 242-243)

«Et quando il vidi mi maravigliai
ch'in sulla barba à un sacco di zanzare» (Buca di M., vv. 98-99)

«Corne lupi affamati inanzi all'alba» (ibid., v. 270)

«E veloce ciascun più ch'un uccello » (Beoni, v. 50)

«Tien degnità, ch'è pastor fesulano,
e ha 'n una sua tazza devozione,
e ser Anton seco ha, suo cappellano ». (Beoni, vv. 82-84)

«E canonici chiama suoi frategli, tanto che tutti intorno gli fan cerchio; e, mentre lo ricuopron co' mantegli, lui con la tazza al viso fa coperchio» (ibid., vv. 97-100)

«Neri Corsini ch'è re de' bugioni
con lui il disperato prête Lercio
e Nanni Schali con la chuffia a bendoni» (Buca di M., vv. 235-237)

Ironia, caricatura, deformazioni continuano dal Magnifico in Francesco
Berni «maestro e padre del burlesco stile». Ecco come presenta se stesso
in alcuni capitoli :

Io ho un certo stil da muratori
di queste cose qua, di Lombardia,
che non van troppo in su co' lor lavori:
Compongo in una certa foggia mia
che se voleté pur ch'io velo dica
me l'ha insegnato la poltroneria. (Cap. al cardinale de' Medici)

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San Pir, s'io dico poi qualche pazzia,
qualche parola c'abbia del bestiale
fa' con Domeneddio la scusa mia.
L'usanza mia non fu mai di dir maie;
e che sia '1 ver, leggi le cose mie, leggi l'anguille, leggi l'orinale,
le pesche, i cardi e le altre fantasie. (Cap. ad Adriano VI.)

Francesco Berni è il cosiddetto perfezionatore del capitolo ternario e secondo
i più il massimo rappresentante del genere burlesco. È il punto centrale
della catena da noi tirata. Osserviamo il «Lamento del diluvio»:

Nel mille cinquecento anni ventuno
nel mese di settembre, ai ventidue,
una mattina a buon'otta, a digiuno,
venne nel mondo un diluvio che fu
si rovinoso, che da Noè in là
a un bisogno non ne furon due.
Fu, corne disse il Pesca, qui e qua,
io che lo vidi dirô del Mugello,
dell'altri parti dica chi lo sa.

La data di composizione è forse quella del 1521, quindi può rientrare nel gruppo delle composizioni giovanili, se «In lode dei ghiozzi» e «Lamento di Nardino» sono stati scritti intorno al 1517. L'attacco del capitolo ci pare estremamente banale, come pure l'andamento del verso, in cui avverte immediatamente la monotonia della successione settenario piano - quinario piano, iniziante per vocale, in entrambi i primi due versi. Il ritmo è del tutto rallentato, sta diventando prosastico. La stessa rima è mortificata ai primi due versi con «ventuno - ventidue», per non dire poi dell'idea infelice di scegliere le seconde parole dei primi tre versi inizianti allo stesso modo (mille - mese - mattina).

Prendiamo alcuni versi del «Capitolo dei ghiozzi»:

O sacri eccelsi e gloriosi ghiozzi o sopra gli altri pesci egregi tanto, quanto degli altri più goffi e più rozzi datemi grazia ch'io vi lodi alquanto alzando al ciel/ a vostra leggiadria.

Senza dubbio originale il contrasto tra il tono solenne, declamatorio e il
soggetto quanto mai insignificante. Ecco già profilato il Berni migliore, il
Berni fresco e spontaneo che saprà ottenere l'effetto della comicità grazie

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proprio a questo contrasto. Anche la rima suona robusta nella scelta delle consonanti doppie, e la dieresi di «gloriosi» rallenta il ritmo del primo endecasillabo conferendogli solennità. Azzeccata è pure l'alternanza, nei primi tre versi, dello endecasillabo a minore con quello a maiore :

Sempre dallo stesso capitolo :


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o pesci senza lische, o pesci santi,
agevoli, gentil, piacevoloni,
da comperarvi a peso ed a contanti.

Versi ariosi e svelti; tre versi estremamente omogenei; tre endecasillabi a
maiore infatti, dei quali il primo e l'ultimo sono costruiti allo stesso modo :

1. «o pesci senza lische/o pesci santi»
sett. + qui. iniziante per vocale.

3. «da comperarvi a peso/ed a contanti»
sett. + qui. iniziante per vocale.

La leggerezza è invece ottenuta grazie al 2. verso dove il I emistichio è
formato da un settenario tronco :

«agevoli, gentil/piacevoloni»

L'evoluzione del sistema metrico del Berni raggiunge una nuova tappa
nel «Capitolo a fra' Bastían del Piombo», vv. 10-51 :

Io dico Michelagnol Buonarroti,
che quando io '1 veggio mi vien fantasia
d'ardergli incenso ed attaccargli i voti
e credo che sarebbe opra più pia
che farsi bigia o bianca una giornea
quand'un guarisce d'una malattia.
Costui cred'io che sia la propria idea
délia scultura e dell'architettura
corne délia giustizia nome Astrea.
E chi volesse fare una figura,
che le rappresentasse ambedue bene
credo che faria lui per forza pura.

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Per voi sapete quanto egli è dabbene
com'ha giudizio, ingegno, discrezione,
corne conosce il vero, il bello, e il bene.
Ho visto qualche sua composizione
sono ignorante e pur direi d'avelle
lette tutte per mezzo di Platone
si ch'egli è nuovo Apollo e nuovo Apelle
tacete unquanco, pallide viole
e liquidi cristalli e fere snelle.
Ei dice cose, e voi dite parole
Cosl moderni voi scarpellatori
e anche antichi, andate tutti al sole.
E da voi, padre reverendo, in fuori,
chiunque vuole il mestier vostro fare
venda più presto aile donne i colori.
Voi solo appresso a lui potete stare,
e non senza ragion, si ben vi appaia
amieizia perfetta e singulare.
Bisognerebbe aver quella caldaia
dove il suoeero suo Medea rifrisse
per cavarlo di man délia vecchiaia
0 fosse viva la donna d'Ulisse,
per farvi tutt'a due ringiovenire
e viver più, che già Titon non visse.
Ad ogni modo e disonesto dire
che voi che fate i legni e i sassi vivi
abbiate poi com'asini a morire.
Basta che vivon le querci e gli ulîvi,
1 corbi, le cornacchie, i cervi e i cani,
e mille animalacci piu cattivi.

In generale il verso, il ritmo, la rima risultano armonici, senza variazioni; certo, stiamo già vicini ad un effetto di monotonia, c'è il ripetersi di uno stile. C'è il ripetersi di formule fisse: «io dico» (v. 10)/ «ei dice» (v. 31)/ «voi dite» (v. 31)/ disonesto dire» (v. 46); «credo che» (v. 13)/ (v. 16)/ (v. 21).

La rima non risalta, in una sovrabbondanza di uscite semplici, a parte le consonanti doppie di «Apelle - snelle», «Ulisse - visse». Oserei affermare che la sveltezza e il brio del poeta si stanno cristallizzando. Prendiamo il capitolo «A Fracastoro»:

Udite, Fracastoro, un caso strano,
degno di riso e di compassione,
che l'altr'ier mi 'ntervenne a Povigliano.

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Monsignor di Verona, mio padrone,
era ito quivi accompagnare un frate
con un branco di bestie e di persone.
Fu a' sette d'agosto, idest di state,
e non bastavon tutte a tanta gente,
se ben tutte le stanze erano agiate.
Il prête délia villa, un ser sacceate,
venne a far riverenza a Monsignore,
dentro non so, ma fuor tutto ridente.
Poi volto a me, per farmi un gran favore,
disse: «Stasera ne verrete meco,
che sarete alloggiati da signore.
I'ho un vin, che fa vergogna al greco,
con esso vi darô frutte e confetti
da far vedere un morto, andare un cieco.
Fra tre persone arête quattro letti
bianchi, ben fatti, isprimacciati, e voglio
che mi diciate poi, se saran netti ».
Io che gioir di tai bestie non soglio,
lo licenziai, temendo di non dare,
come detti in malora, in uno scoglio.
«In fè di Dio» diss'egli, «io n'ho a menare
alla mia casa almanco due di voi :
non mi vogliate questo torto fare ».
«Be\» rispos'io, «messer, parlerem poi:
non fate qui per or questo fracasso;
forse d'accordo resterem fra noi ».

In questo capitolo, tradizionalmente considerato il migliore del Berni, il
ritmo è particolarmente variato, mosso, in una fortunata alternanza di
endecasillabi a maiore/a minore:


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Poi la mutazione che giunge rapidissima e quanto mai benvenuta :


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Ancora una cura di costruire certi versi allo stesso modo: v. 25 e v. 28, entrambi
incipit di terzina, entrambi discorsi diretti, entrambi endecasillabi a
maiore :

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v. 25: «In fé di Dio» diss'egli/«io n'ho a menare»,

v. 28: «Be'», rispos'io, «messer/parlerem poi».

Questa tematica e questa costruzione interna del verso passa dal Berni ai berneschi Cesare Caporali (1531-1601) e Anton Francesco Grazzini, detto Lasca (1503-1584). Il primo, membro dell'Accademia degli Insensati a Perugia, sotto il nome di Stemperato, il secondo dell'Accademia degli Umidi a Firenze. Entrambi satireggiano contro il pedantismo (Caporali: «Viaggio di Parnaso», «Avvisi di Parnaso») ed entrambi abusano del loro modello, non apportando ad esso niente di originale però. Hanno, tali autori, la loro importanza storica.

Storicamente la poesia burlesca rifiorisce nel '700. Per tutto il '600 il sistema metrico della terza rima continua nella poesia satirica. Sarebbe interessante riesaminare con occhi liberi dalla tradizione, tutta quella produzione «satirica in terza rima» che, per chi fa distinzione tra terza rima e capitolo ternario, costituisce argomento a parte. La scissione che viene a costituirsi nel '500 tra ottava e terza rima, tra terza rima dei capitoli e terza rima delle satire è opera del Berni e dell'Ariosto, dice Fubini, riportando le famose righe del De Sanctis: «La terza rima, il linguaggio eroico e tragico del medio evo, il linguaggio della Divina Commedia, e de' Trionfi, in questa profonda trasformazione letteraria diviene il linguaggio della commedia, il metro del capitolo, della satira, dell'epistola, con una sprezzatura che arieggia alla prosa ... la terzina sarebbe rimasta come il sonetto e la canzone, stazionaria & convenzionale, il Berni l'Arioste nott 4e avessero éato nuova vita, traendola dal cielo, e dandole abito conforme al tempo.» Infondo qui si afferma che l'Ariosto segnò una nuova tappa nell'evoluzione della terzina, della terzina appunto come metro della poesia satirica. Si sa che !a produzione satirica in terza rima continua in Jacopo Soldani (1579— 1641), Salvatore Rosa (1615-1673), Benedetto Menzini (1646-1704). Stilisticamente però la produzione di questi autori è differente. Per i primi due si parla di un vero contenuto satirico, pieno di impeto e di passionalità. Riportiamo alcuni versi della Satira I di Salvatore Rosa:

E la musica odierna indegna e vile
perche trattarla e sol con arroganza
da gente viziosissiama e servile;
gente, albergo d'obbrobrio e d'ignoranza;
sordida torcimanna di lussurie;
gente senza rossor, senza creanza

il tono continua allo stesso modo anche nelle altre satire. Ma se ci soffermiamo
sul Menzini, allora il discorso è diverso, essendo rintracciabile qui

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un certo motivo burlesco. Penso ad es. alla Satira I, alla prima terzina, al
modo spiccio di attaccare, alla viva immagine dei w. 7-9, ai diminutivi (es.
miglioruccio - secoletto), alla volgarità dei w. 22-36, all'uso délia I pers. :

Mi domanda talun s'io studio in Marco:
e perché a me non dimandar piuttosto
se ho conversa la toga in saltambarco ?
O se nella mia mente abbia disposto
fare il barbiere, o di Tonton la stuffa;
non che il gennaio ire a pulir d'agosto ?
E sai, se al naso mio cresce la muffa
in veder quai si fa disprezzo indegno
di chi su' libri a faticar si stuffa ?
E in maggior pregio sale un ch'abbia pregno
i! goffo capo di asinesca fava,
che un tal ben chiaro, e ben pulito ingegno,
pensa, se il Miglioruccio intento stava
a farmi dolce alla virtude invito,
e se di me non poco onor sperava ?
S'ei rinculasse un po' donde egli è gito,
e potesse al sepolcro dar di cozzo,
vedrebbe il suo presagio incivettito ;
perocché la treggea or fa singhiozzo,
e questo secoletto miterino
ha converso in sassate il berlingozzo.
O guaste ehiappe deU'eroe Pasquino,
dategli almeno voi qualche profumo,
che vinca l'ambra, il musco e '1 beizuino.
Perch'io non sono avvezzo, e non costumo
d'imbalsamar furfantï, e di Parnaso
infâme barattier non vendo il fumo.
Ma do la biada al buon destrier Pegàso
per veder, se a costor dà délie zampe,
o in epa, o in testa, o in più notabil vaso.
Intanto ad Erculan vanno le zampe
délia crapula al cerebro, che bolle,
e '1 poeta digiun bada aile stampe.

Si sa corne elementi burleschi e satirici spesso convivano. Diversi sonetti dello stesso Burchiello non sono poi tanto strambi, alla burchia, ma contengono notevole spirito satirico, pettegolo che attacca la situazione politica dei tempo, la donna, il clero ecc. Robustamente satirici nella loro critica antimedicea sono i sonetti «O umil popolo mio. tu non t'avvedi» e «Non posso più che Tira non trabocchi ». Si parla e di una satira burchiellesca e di una satira bernesca. Perché fare una scissione tra capitolo burlesco e

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satirico ? La tematica del capitolo ternario oscilla tra un contenuto burlesco e satirico - burlesco. Le caratteristiche del capitolo ternario si riscontrano anche nel '600, nella cosiddetta produzione satirica del '600. La linea che abbiamo tracciato a partire dal Finiguerri, continua quindi ininterrotta fino al '700. Non stiamo qui a ricordare come il Settecento abbia avuto il culto della poesia burlesca, ci accontenteremo infatti di ricordare Carlo Gozzi con le «Rime piacevoli», «La tartana degli influssi invisibili». Lo stesso Goldoni fu influenzato dal Nostro se nel «Poeta fanatico» scrive alcuni versi in cui cita apertamente la «Marfisa» del Gozzi:

Era di notte e non ci si vedeva
perche Marfisa avea spento il lume
un rospo con la spada e la livrea
ballava il minuetto in mezzo al fiume
L' altro giorno è da me venuto Enea
e m'ha portato un origlier di piume;
Cleopatra ha scorticato Marcantonio
le femmine son peggio del demonio.

Parlando del Parini e della sua poesia in capitoli ci si deve riportare alla raccolta «A Ripano Eupilino» (la seconda parte di «Poesie piacevoli») dove si ritrovano indiscutibili elementi burchielleschi e berneschi. Lo stesso nella raccolta «Poesie varie», ad es. «Al canonico Candido Agudio», dove tipicamente berneschi sono l'inizio con dedica, la ripetizione «voi siete» ai vv. 1, 2, 4, l'uso della 1 pers., la rima estremamente semplice (di consonanti semplici):

Canonico, voi siete il padre mio,
voi siete quegli in cui unicamente
mi resta a confidare dopo Dio;
voi siete quegli che pietosamente
m'avete fino adesso mantenuto,
e non m'avete mai negato niente.
10 mi rimasi ieri sera muto
per la vergogna di sentirvi dire
11 tristo caso in cui sono caduto.
Dicolvi adesso: ch'io possa morire,
se ora trovomi avere al mio comando
un par di soldi sol, non che due lire.
Limosina di messe Dio sa quando
io ne potrò toccare, e non c'è un cane
che mi tolga al mio stato miserando.

Il Berni aveva influenzato al gusto della burla, dello scherzo e della caricatura
l'Accademia dei Trasformati che, restaurata nel 1743 lottava per un

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programma di difesa della tradizione lombarda e della poesia popolare, il cui contenuto doveva essere morale, satirico, civile, in forma anche dialettale e giocosa. Nel capitolo indirizzato a don Ambrogio Fioroni, curato di Canzo, senti tutta la tradizione burlesca nella scelta del tema autobiografico, nell'ironica autocommiserazione, nel disprezzo verso i libri, nel suo attaccamento alle allegre brigate:

Io sono, verbigrazia, un compagnone,
che mi piace di ridere e gracchiare
co' miei amici in conversazione

la scelta dei vocaboli, la pausa grammaticale che mette in risalto quell'arcaico
e tanto più di tradizione burlesca «verbigrazia». Ti fa pensare subito al
Berni, al capitolo I della pesta-

però sia detto per un verbigrazia.

Nella raccolta di «Poesie varie» non manca l'altra faccia del capitolo cioè
l'elemento satirico, leggi ad esempio il componimento per le nozze Giuliani
- Fiori dove il Parini critica i poco seri autori di versi per nozze :

Ti conducono all'uscio a far la spia ;
fanti veder Coniugio che vien drento
e la Verginità che scappa via.
Cascan ne le sozzure in sino al mento
e fanti comparire una sporchezza
quel cosi alto e nobil sacramento.
Ho visto epitalami si villani
che starian meglio, il ciel me lo perdoni,
ne le nozze che fan tra loro i cani.

L'influsso del Burchiello e del Berni, e di conseguenza l'uso del capitolo ternario, termina storicamente con Alfonso Varano (1765-1788) con il quale finisce la parodia della Divina commedia (e dei Trionfi). Con le sue dodici Visioni fu stimato «unico e rinnovatore dello stile dantesco».

Concludendo, nel tracciare l'evoluzione del capitolo ternario riteniamo di aver sottolineato la sua continuità dal Finiguerri al Varano in una tematica burlesca, satirico/burlesca. In fondo il nostro interesse era di dimostrare l'armonia del suo percorso, e di isolare la figura dell'Ariosto, considerandola piuttosto un'eccezione, che non ha influsso sul capitolo ternario del '600 e del '700.

Emanuela Kromann

Odense

Bibliografia

M. Fubini: «Metrica e poesia del Settecento» in Saggi e ricordi, Milano-Napoli 1971.

W. T. Elwert: «Lo svolgimento délia forma metrica délia poesia lirica italiana dell'Ottocento»
in Saggi di letteratura italiana, Wiesbaden 1970.

M. Fubini: Metrica e poesia, Milano 1962.

R. Cremante e M. Pazzaglia: La metrica, il Mulino, Bologna 1972.