Revue Romane, Bind 8 (1973) 1-2

L'opera poetica di Francesco Berni

DI

CARLO IZZO

«Capolavori per caso» definì molti anni or sono Emilio Cecchi quelle opere «minori », non di rado di autore ignoto, nelle quali, quasi miracolosamente, manchevolezze e difetti paiono scomparire in un punto di magico equilibrio che crea «per caso» il capolavoro. E aggiungeva: «Forse non è tra le minori povertà della nostra letteratura che fra le cuspidi dell' arte sublime e l'odiosa piattezza dell'arte falsa sia scarsa amenità ed avventura di simili pénombre. »

Molto ben detto, e abbastanza esatto. La nostra letteratura, nata dialettale, e con tracce di popolare schiettezza anche nelle più raffinate espressioni della scuola siciliana, raggiungeva di buon' ora in Dante Alighieri una mirabile fusione delle due sue componenti, per cui nobiltà e immediatezza d'espressione riducevano i contrari a unità. Ma già nel Petrarca - nella parte caduca dell'opera del Petrarca - il linguaggio cominciò a mostrar segni di essere avviato a prevalere sull'interno moto degli affetti e delle sensazioni. Il '400 segnò, è vero, un tempo d'arresto in questo inevitabile processo di deterioramento: quel secolo, accanto ai severi e fervidi studi umanistici, seppe infatti mantenere e, in parte, quasi direi, ridonare, al linguaggio lirico una sorprendente freschezza. E' il secolo delle Canzoni e dei Canti carnascialeschi di Lorenzo il Magnifico, il secolo nel quale il Poliziano seppe unire alla raffinata cultura classica la limpida vena delle Stanze e delle Ballate :

«I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino
Di mezzo maggio in un verde giardino... »

Ciò non toglie, tuttavia, che l'Umanesimo andasse preparando il trionfo della lingua aulica, erede diretta della risorta classicità, e quella lingua si affermò nel Rinascimento da padrona; e, finché trovò scrittori il cui mondo fantastico e di pensiero - l'Ariosto e il Machiavelli valgano per tutti - era di tale ampiezza da poter rivaleggiare con quello dei grandi modelli dell'antichità, la nobiltà della lingua, non che di pregiudizio,

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fu strumento prezioso e insostituibile. Assai peggio andarono invece le cose quando uomini di meschino sentire, di bassa moralità artistica e umana, si diedero a esprimere la loro ambizione letteraria in forme troppo più grandi di loro. Creata la grande tradizione, pochi ebbero il coraggio di sottrarsene, di dare umilmente ma onestamente voce alla loro autentica personalità. Petrarchisti, secentisti, arcadi, con poche nobili eccezioni, imperversarono allora nella lirica italiana, che doveva ritrovare la via giusta soltanto col Foseólo, per trionfare poi definitivamente nell'opera grande di Giacomo Leopardi.

Come che sia, le «amene pénombre», delle quali Emilio Cecchi, nel brano citato, lamenta, con pessimismo forse eccessivo, la scarsità, appaiono soprattutto nella poesia popolareggiante o burlesca, poesia di uomini i quali ebbero più caro il loro io, per quanto lontano dal sublime, che non la fama cui altri miravano attraverso fredde, ma reputate più elette, esercitazioni verbali. D'altra parte, in tempi di grande rigoglio culturale e intellettuale, ma di bassa moralità umana e politica, solo chi portava in sé la magnifica capacità d'evasione di un Ariosto o la spietata lucidità di un Machiavelli o la sottigliezza e la sapienza umana di un Guicciardini, poteva salvarsi. Agli altri non rimaneva che l'arte falsa, di cui dice il Cecchi, la quale colorisse di belle parole la mancanza di più alte idealità; e rimaneva la sfrontatezza, o il coraggio, di confessare il comune contagio: sfrontatezza, e peggio, quella dell'Aretino, che volta a volta servì i tempi e li condannò, flagellando a sangue i vizi della società in cui visse e, sempre che ne avesse il suo tornaconto, vergognosamente la adulò, corrottissimo egli stesso d'animo e di costumi; franca accettazione della realtà quella del Berni e di coloro che si mossero intorno a lui : non acclamarono al mondo in cui accadde loro di vivere e di poetare né lo rifiutarono; fra satira e lepida dipintura dei costumi del tempo, sedettero senza grandi disgusti, e spesso con aperto compiacimento, al banchetto

Poiché s'è nominato 1' Aretino, avversario acerrimo del nostro poeta, conviene subito definire la sua posizione di fronte a quest' ultimo. Dal punto di vista umano basterà accennare al diverso contegno tenuto dai due scrittori alla morte di quel Giovanni de' Medici, secondogenito del Magnifico, il quale, divenuto Papa con il nome di Leone X, era stato protettore insigne di artisti e letterati, la maggior parte dei quali in certo qual modo lo rimpianse, ma con irriverenza spesso peggio che burlesca, e, soprattutto, come munifico protettore della generale baldoria, e aurea fonte di lauti guadagni e cortigiano splendore di vita.

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L'Aretino sfogò il suo malumore per la scomparsa del grande mecenate con maldicenze e calunnie sanguinose contro l'intero Conclave, non escluso il cardinale che doveva poi essere eletto a sua volta Papa, ma lo fece anonimamente, nascondendosi sotto la maschera tradizionale di Pasquino, e quando il disordine della sede vacante assicurava comunque l'impunità. Il Berni il suo malcontento espresse invece in un Capitolo scritto alcuni mesi più tardi, e a viso aperto, tanto che Adriano VI, saggio quanto infelice Pontefice, mostrando di apprezzarne la sincerità e il coraggio, non pensò a prendere vendetta alcuna di lui, mentre l'Aretino, contro ogni sua aspettativa scoperto, dovette salvarsi dalla non ingiustificata ira pontificia con la fuga.

Dal punto di vista letterario, se l'Aretino si distingue per maggiore virulenza nella satira e più rude schiettezza e anche audace novità di linguaggio e di immagini, il Berni è artista più raffinato e più sincero. Non sue le smaccate adulazioni del suo avversario, non sua la frequente anche rozzezza di quest' ultimo, che scriveva spesso alla vien viene, tutto affidando alla sua procellosa e certo fervida inventiva, ma non curandosi mai di rivedere o polire. Cè inoltre in lui una linea di nobiltà e, a volte, stranamente, come vedremo, una vena di malinconia, che lo pongono, anche come artista, in quanto quella sua nobiltà e quella malinconia egli seppe esprimere in forme squisite, a un livello indubbiamente superiore a quello dell'Aretino, Anche la leggenda sorta intorno alla sua morte misteriosa - leggenda che non è mai stata efficacemente smentita - è segno che egli, pur assecondando i tempi, non ne fu tócco nel fondo della sua persona morale. Vuole infatti la tradizione che egli morisse, l'anno 1535, di veleno; quello stesso veleno che egli si sarebbe rifiutato di propinare, per istigazione del Cardinale Innocenze Cibo, al cugino di costui, Cardinale Giovanni Salviati, ribelle contro quel Duca Alessandro de' Medici che doveva poi cadere sotto il pugnale di Lorenzino. Risponda tutto questo a verità o no, si può sempre con qualche sicurezza affermare che una così onorevole leggenda difficilmente sarebbe potuta nascere intorno alla torbida figura dell'Aretino.

Prima di passare a parlare di quella parte dell' opera del Berni che gli ha assicurato un posto ben definito nella storia della letteratura italiana, conviene far cenno dell'opera più generalmente nota: il rifacimento dell' Orlando innamorato del Boiardo.

Il poema del Boiardo fu un po' la spina nel fianco del '500: la lingua
mista di lombardismi e latinismi, la versificazione non di rado trasandata,
ferivano il culto per la perfezione formale cui si rendeva omaggio dai

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più, così che, accanto ai continuatori del poema incompiuto, numerosi furono i raddrizzatori delle presunte storture, più famoso fra tutti appunto il Berni, il cui Rifacimento oscurò per oltre tre secoli l'originale. Oltre che rifare, il Berni aggiunse parecchio di suo al poema del Boiardo e, tra le aggiunte, famosissima è quella nella quale il poeta parla in terza persona di se stesso, della sua vita e persona e natura, al modo di quei pittori che, in tele di tutt' altro soggetto, ci hanno lasciato autoritratti in veste di qualche santo o apostolo di contorno. L'inserzione, parecchio seria di tono anche dove l'umore bernesco fa capolino, si trova, quasi come una firma, nel penultimo canto del Rifacimento. Incomincia così :

Quivi era, non so come, capitato,
Un certo buon compagno fiorentino. .

e subito il poeta da notizia delle sue origini non plebee :

Fu florentine» e nobil, benché nato
Fusse il padre e nutrito in Casentino :
Dove il padre di lui gran tempo stato
Sendo, si fece quasi cittadino,
E toise moglie, e s'accasô in Bibbiena,
Ch'una terra è sopr'Arno molto amena.

Passa poi a parlare della sua nascita, avvenuta intorno al 1497, dei primi
anni di vita, e di quelli che seguirono :

Costui ch'io dien a T amporecchio nacque
Poi fu condotto in Fiorenza, ove giacque
Fino a diciannove anni poveretto :
A Roma andô di poi, corne a Dio piacque,
Pien di molta speranza e di concetto
D'un certo suo parente cardinale,
Che non gli fece mai né ben né maie.

Allude al cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, con la famiglia del
quale i Berni s'erano imparentati per matrimonio nella persona di un
nonno del poeta.

Morto lui, stette con un suo nipote Dal quai trattato fu come dal zio F sendo allor le laude molto note D'un che serviva al Vicario di Cristo In certo ofricio che chiaman Datano, Si pose a star con lui per segretario.

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Questo Datario era il vescovo di Verona Giammatteo Giberti, prelato di
rara virtù per quei tempi, e che ebbe il Berni assai caro. Non altrettanto
caro, tuttavia, era al Berni il mestiere di segretario :

Credeva il pover uom di saper fare Quello esercizio e non ne sapea straccio. Quanto peggio facea più avea da fare, E scriveva e stillavasi il cervello.

Sapeva comunque far buon viso a cattivo gioco :

Con tutto ciò viveva allegramente,
Né mai troppo pensoso o tristo stava..

recitava i suoi famosi Capitoli a mente:

E certe altre sue magre poesie
Ch'eran tenute strane bizzarrie..

si descriveva :

.. .forte collerico e sdegnoso
Délia lingua e del cor libero e sciolto.
Non era avaro, non ambizioso,
Era fedele ed amorevol molto:
Degli amici amator miracoloso:
Cosl anche chi in odio aveva tolto
Odiava a guerra finita e mortale,
Ma più pronto era amar ch'a voler maie

dava infine di se questo vero e proprio autoritratto di bella accuratezza
e precisione :

Di persona era grande, magro e schietto,
Lunghe e sottil le gambe forte aveva,
E'l naso grande, e'l viso largo, e stretto
Lo spazio che le ciglia divideva:
Concavo l'occhio aveva, azzurro e netto,

concludendo comicamente così :

La barba folta quasi il nascondea,
Se l'avesse portata, ma il padrone
Aveva con le barbe aspra quistione.

11 Giberti proibiva infatti ai suoi dipendenti di portar barba; e pare che
proprio la stizza per quella leggiadria di cui era costretto a far senza suggerisseal

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gerissealpoeta la forte ottava che segue, dove l'uomo appare assai meno
soddisfatto del mondo e della vita che è costretto a condurvi di quanto
si sarebbe portati a credere :

Nessun di servitù giammai si dolse,
Né più ne fu nemico di costui,
E pure a consumarlo il diavol tolse:
Sempre il tenne fortuna in forza altrui:
Sempre che comandargli il padrón volse,
Di non servirlo venne voglia a lui:
Voleva far da sé, non comandato :
Com'un gli comandava era spacciato.

Quanto al Rifacimento propriamente detto, siamo ritornati da decenni parecchi alla «scorretta» spontaneità del Boiardo, e perdoniamo al Berni il suo errore - quasi un sacrilegio - in vista di quanto ha saputo darci di ottimo altrove, e nelle stesse aggiunte sue originali all'lnnamorato.

Mi limito a un unico raffronto fra i due testi, tolto dall'episodio del
duello fra Orlando e Agricane, descritto dal Boiardo nel Libro I, Canto
XVIII del suo poema, così:

Fermossi ivi Agricane a quella fonte, E smontò dell' arción per riposare, Ma non si tolse l'elmo da la fronte, Né piastra o scudo si volse levare.

Il Berni modifica:

Fermossi il re Agricane a quella fonte, E smontò per alquanto riposare, Ma non si tolse l'elmo dalla fronte, Né arme alcuna si volse spogliare.

Per un miglioramento: «II re Agricane a quella fonte», in luogo di «ivi Agricane a quella fonte», dove lo «ivi» ripete senza ragione la determinazionedi luogo già sufficientemente espressa dal «quella fonte»: per un miglioramento, dicevo, due peggioramenti: «E smontò de I'arción», che diventa «e smontò per alquanto », e: Né piastra o scudo », che diventa «Né arme alcuna», dove è palese che il rifacitore, inseguendo chi sa mai quale interiore bisogno di scorrevolezza o di assonanze, sostituisce il generale al particolare, togliendo così evidenza e vivacità all'immagine: errore in verità assai strano in uno scrittore nelle sue opere originali cosi preciso nel determinare e definire. Sta di fatto che il Rifacimento è opera d'arte riflessa, e rivela come tale una preoccupazione critica e linguistica

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a freddo, la quale toglie acume al gusto del Berni, altrove tanto spigliato
e fresco e sicuro.

Veniamo dunque, finalmente, a questo autentico Berni, a quei Capitoli
e caudatissimi sonetti cui la sua fama soprattutto si raccomanda.

Cominciamo dall'esterno: la lingua. Spinosa questione quella della lingua, in Italia, mai tanto viva come oggi, quando la civiltà nuova, rapidamente sopraggiunta, cerca di crearsi un adeguato strumento espressivo. Lingua nobile, letteraria, aulica, da un lato, e lingua parlata, disprezzata fino al principio del nostro secolo, dall'altro. Il toscano stesso è un dialetto, straordinariamente efficace, se si vuole, ma che suona affettato a orecchie settentrionali o meridionali. La soluzione è molto probabilmente un compromesso, quale il Berni istintivamente effettuò nel suo vivacissimo linguaggio : merito riconosciutogli dagli stessi contemporanei, se «il Lasca», al secolo Anton Francesco Grazzini, primo in ordine di tempo tra i « berneschi », ebbe a scrivere di lui :

Non sia chi mi ragioni di Burchiello,
Che saria proprio come comparare
Caron Demonio all'Agnol Gabriello.

E altrove, precisando anche meglio :

Non offende le crecchie della gente
Colle lascivie del parlar toscano,
Unquanco, guari, mai sempre e sovente.

Siamo certo lontani dai riboboli del Burchiello, il barbiere fiorentino al secolo Domenico di Giovanni ; ma, sia detto con buona pace del Lasca, qualche cosa il Berni deve anche alle stramberie dello stravagante barbitonsore, autore di versi quaii :

Nominativi fritti e mappamondi E l'arca di Noè fra due colonne Cantavan tutti chirieleisonne Per l'influenza dei taglier mal tondi.

L'albero genealogico, dall'Angiolieri giù attraverso il Burchiello e il Pulci, fino a quell'Antonio Cammelli, detto il Pistoia, che il Berni apertamente ammirò, culmina comunque in lui, grazie all'impronta personale che egli impresse alla tradizione burlesca, conducendola a tale perfezione e sapore, che il genere tolse in séguito da lui la denominazione, da me già usata, di «bernesco».

Tale, tuttavia, era la sua coscienza d'artista che, egli vivente, le sue oggi

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famose poesie burlesche non furono date alle stampe : le recitava a mente, a tavola, fingendo d'improvvisare. Indulgeva al gusto del tempo, ma non gli pareva degno di un poeta quale egli certo nel suo intimo si considerava - il Rifacimento dell''lnnamorato ne è prova - trattare della materia vile cui le esigenze della società in cui viveva e trovava il suo pane, e la moda, comportavano. Capitoli «in lode dei ghiozzi, delle anguille, dei cardi, della gelatina, dell' orinale, del caldo del letto », lui ! Ed ecco come risponde, davvero per le rime, e si trattava del Cardinale de' Medici in persona, a chi gli chiede versi in onore di un suo nano buffone:

Non sono i versi a guisa di farsetti,
Che si fanno a misura, né la prosa,
Secondo la persona or larghi or stretti.

Altro che verseggiatore cortigiano e senza moralità d'arte! Alla Corte del Cardinale, tuttavia, ci viveva e, nella seconda parte del Capitolo, dopo la lezioncina, s'inchina, e accontenta, purtroppo, il suo signore e padrone.

Quello scrivere di cose futili pare dunque gli sia stato meno gradito di quanto il brio che sapeva metterci farebbe supporre. Le tante fandonie potrebbero anche voler intendere: abbia ogni tempo il pasto che gli si confa : ecco a voi le vostre pèsche e ghiozzi e gelatine e cardi e orinali e caldo del letto, dal momento che non meritate di meglio. Buon discepolo, in questo. dell'Ariosto. facendo apparire facili gli accorgimenti letterari più sottili, sapeva ammannire le sue pietanze verseggiate da cuoco eccellente:

S'io avessi le lingue a mille a mille
E fossi tutto bocca, labbra e denti,
lo non direi le lodi delle anguille.

Poi ch'io ho detto di Matteo Lombardi,
De' ghiozzi, de l'anguille e di Nardino,
Io vuo' dir qualchecosa anche de' cardi.

Non passa mai né sera né mattina,
Né mezzo dì né notte, ch'io non pensi
a dir le lodi della gelatina.

E quale satira spieiata, nella sua paradossale comicità, potrebbero mai
essere i due Capitoli sulla peste! Tra le pieghe del sorriso bernesco sembra
veder spuntare quello spieiatamente corrosivo di Jonathan Swift. In

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mezzo a tante sozzure e vergogne, ben venga anche la peste: ne avremo
in dono una libertà anche maggiore di farci passare la mattana:

Prima ella porta via tutti i furfanti,
Gli strugge, e vi fa bûche e squarci dentro,
Corne si fa dell'oche l'Ogni Santi.
Vivesi allor con nuove leggi e patti,
Tutti i piacer onesti son concessi,
Quasi è lecito agli uomini esser matti.
Di far pazzie la natura si sazia,
Perché in quel tempo si serran le scuole,
Ch'a putti esser non puô la maggior grazia.

E, in tono più serio, pur nell'abituale faceto:

Cosl a questo corpaccio del mondo,
Che per esser maggior più feccia mena,
Bisogna spesso risciacquare il fondo.

E la natura che si sente piena
Piglia una medicina di moria,
Corne di reubarbara o di senna.

E lasciot'ir, maestro Piero mio,
Con questo salutifero ricordo,
Che la peste è un mal che manda Dio:

E chi dice altrimenti è un gran balordo.

Accanto alle pagine famose di Tucidide, Lucrezio, Giovanni Boccaccio,
De Foe, Manzoni, Camus, può situarsi anche questa nota nuova e impensata,
che s'inserisce, con una sfumatura di comico, nei tema comune.

Meglio noto, e giustamente anche più ammirato, è il Capitolo dedicato a Messer leronimo Fracastoro, nel quale il Berni, con varietà di toni da lui mai superata, descrive l'orribile notte passata in casa d'un certo prete, il quale, condito il suo invito con una descrizione quanto mai allettante degli alloggiamenti di cui dispone, riesce a trarsi dietro, quasi a forza, il riluttante poeta e un amico di lui :

Era discosto più d'un grosso miglio
L'abitazion di questo prête pazzo,
Contr'al quai non ci valse arte o consiglio.

lo credetti trovar qualche palazzo
Murato di diamanti e di turchine,
Avendo udito far tanto stiamazzo.

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Invece:

Quando Dio volle, vi giungemmo al fine;
Entrammo in una porta da soccorso,
Sepolta nell'ortica e nelle spine.

La rapidità del trapasso, la nessuna meraviglia espressa, mostrano come meglio non si potrebbe quanta poca fede il poeta avesse prestata alle parole del «prete pazzo », e quanto salda, anche prima che i fatti la dimostrassero fondata, avesse invece ininterrottamente mantenuta la sua diffidenza. Ancora una volta l'arte del dire si conferma soprattutto come arte del silenzio significante; e la freschezza di quell'ultima terzina è di tale modernità - meglio si direbbe : talmente fuori del tempo - da risvegliare, in chi oggi la legga, l'eco vicina di un poeta popolaresco quale il romano Cesare Pascarella.

Per quanto costretto a tralasciare i minuti particolari della descrizione che segue: preziosissima; perfino, qua e là, lambiccata, ma pur sempre fresca e scorrevole e, per la vivacità e la ricchezza delle nutazioni comiche, fantasiosissima, non posso omettere di ricordare la sorpresa del tono improvvisamente dotto che assume il capitolo nell'ultima parte, quando, venendo a parlare della lotta sostenuta nella notte con gli insetti d'ogni genere che lo tormentarono, il Berni fa sfoggio di allusioni classiche ed erudite quanto mai umoristicamente contrastanti con la bassezza dell'argomento, giungendo a dare alle sue terzine un andamento addirittura dantesco.

E la mattina:

Mi levai che parevo una lampreda,
Un'eliotropia fine, una murena;
E chi non me'l vuol creder non me'l creda.

Di buchi avevo la persona piena:
Ero di macchie rosse tutto tinto :
Parevo proprio una notte serena

Quest' ultimo verso, mezzo popolaresco e mezzo elegiaco, compendia mirabilmente in sé i due temi musicali del componimento, cui va ad aggiungersi, nell'abile contrappunto dell'insieme, il già accennato tema classico-erudito, e la preziosità di versi quali: » Murato di diamanti e di turchine» o «Un'eliotropia fine, una murena». Non a caso la critica ha sempre additato in questo Capitolo il capolavoro di Francesco Berni poeta burlesco.

Tra i sonetti - lasciando da parte i più famosi, accolti in tutte le antologie

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- è da ricordare quello per la mula di Florimonte, il quale, riprendendo il tema del vecchio ronzino male in gambe, sfruttato, si può dire, da ogni poeta burlesco predecessore o contemporaneo del Berni - Rozinante e il cavallo di D'Artagnan erano ancora di là da venire - cava dal vecchio argomento tutto il succo che ancora può dare. Il sonetto è fornito di ben dodici «code», delle quali ecco l'ultima:

O con un cardinale
Per paggio la ponete a far inchini,
Ch'ella gli fa volgar, greci e latini.

Ancora e sempre in questa parlata, schietta senza essere sciatta, tutta cose, senza vuoti compiacimenti formali, eppure attentissima agli effetti di suono e descrittivi e ai moti costantemente variati della fantasia, ancora e sempre in questa parlata, dicevo, è da riconoscere il maggior merito poetico del Berni :

Io che soglio cercar materia breve,
Stenle asciutta e senza sugo alcuno.

Lo abbiamo còlto in accenti virili e rattristati; abbiamo visto come, per quanto non rifuggisse dai vizi del tempo, serbasse coscienza dritta e onesta. Il segreto della vibrazione umana che accompagna la sua poesia, in apparenza tanto leggera e vana, è forse proprio in quel contrasto.

Conclude le opere latine del Berni, stranamente contrastanti per delicatezza di sentimento con la maggior parte della sua opera in volgare, un epitafio il quale - sebbene, probabilmente per ragioni metriche, lo faccia nativo di Bibiena, terra del padre suo, anziché di Lamporecchio, di dove si dice egli stesso originario nei versi del Rifacimento che ho citati - al poeta certamente si riferisce. Esso dice:

Postquam semel Bibiena in lucem hunc extulit Quem nominavit aetas acta Bernium, lactatus inde semper et trusus undique, Vixit diu quam vixit aegre ac duriter: Functus, quietis hoc demum vix attigit.

Torna nuovamente alla memoria Jonathan Swift, I'epitafio che anch'egli
compose per sé medesimo:

«Übi saeva indignatio ulterius cor lacerare nequit.»

Carlo izzo

BOLOGNA

NOTA BIBLIOGRAFICA

Rime, poésie latine e lettere édite e inédite, ordinate e annotate a cura di A. Virgili,
Firenze, 1885.

Orlando innamorato di M. M. Boiardo, rifatto da F. Berni. Testo scelto, compendiato
e annotato da S. Ferrari, Firenze 1911.

Rime del Berni e dei berneschi, con introduzione e commento di Gino Saviotti,
Milano 1922.

A. Virgili, Francesco Berni, con documenti inediti, Firenze, 1881.

A. Sorrentino, F. Berni, poeta délia scapigliatura del Rinascimento, Firenze, 1933.